Salta al contenuto

"Buon appetito": si dice o non si dice?

Virgilio Scuola

Virgilio Scuola

REDAZIONE

Virgilio Scuola è un progetto di Italiaonline nato a settembre 2023, che ha l’obiettivo di supportare nell’apprendimento gli studenti di ogni ordine e grado scolastico: un hub dedicato non solo giovani studenti, ma anche genitori e insegnanti con più di 1.500 lezioni ed esercizi online, video di approfondimento e infografiche. Ogni lezione è pensata e realizzata da docenti esperti della propria materia che trattano tutti gli argomenti affrontati dagli studenti durante il percorso scolastico, anche quelli più ostici, con un linguaggio semplice e immediato e l'ausilio di contenuti multimediali a supporto della spiegazione testuale.

Tra le formule di cortesia più diffuse nella lingua italiana, “buon appetito” è forse una delle più spontanee e, insieme, delle più discusse. Apparentemente innocua e benevola, questa espressione ha suscitato per secoli curiosità e dibattiti, soprattutto nei contesti in cui le buone maniere e l’etichetta definivano il linguaggio della tavola.

Dire o non dire “buon appetito” non è soltanto una questione di stile, ma un gesto che racchiude un intero universo di consuetudini sociali, di gerarchie, di simboli e di trasformazioni linguistiche. Capire perché, secondo la tradizione più raffinata, non si dovrebbe dire “buon appetito”, significa entrare nel mondo del galateo storico e delle sottili convenzioni che regolavano la vita di corte e la società borghese europea tra Sette e Ottocento.

Origine e contesto storico

L’origine della formula “buon appetito” risale al linguaggio conviviale francese del XVII secolo, epoca in cui l’etichetta di corte costituiva un codice rigido e condiviso. Il corrispettivo bon appétit era un’espressione che le classi popolari e i servitori si rivolgevano tra loro, mentre nei salotti aristocratici la frase era considerata poco elegante.

Nelle regole della tavola francese – poi diffuse in tutta Europa – si riteneva sconveniente augurare “buon appetito” perché ciò significava riconoscere apertamente la fame, cioè un bisogno corporeo che, nel linguaggio raffinato dell’epoca, non doveva essere nominato.

In ambienti di alta società si preferiva non evocare il corpo, ma la conversazione, la compagnia e la buona educazione. Il pasto, infatti, era considerato un momento di rappresentazione sociale, non di soddisfazione fisiologica.

Dire “buon appetito” equivaleva a ricordare la dimensione materiale del mangiare, infrangendo il velo di discrezione che circondava la tavola nobile. Non a caso, nei trattati di galateo ottocenteschi italiani – ispirati a quelli francesi – si raccomandava di evitare questa formula, ritenuta “plebea” e “troppo confidenziale”.

Il significato autentico e la ragione del divieto

Dietro il divieto di dire “buon appetito” si cela un preciso principio di distinzione sociale e linguistica. Nella cultura aristocratica, il linguaggio serviva a mantenere una distanza simbolica tra chi partecipava al banchetto per piacere e chi vi sedeva per necessità. L’appetito era il segno del bisogno fisico, dunque della condizione umana più elementare. L’educazione di corte, invece, tendeva a mascherare ogni riferimento al corpo, privilegiando il decoro e la misura.

Di conseguenza, augurare “buon appetito” veniva interpretato come un atto troppo esplicito e terreno, contrario alla compostezza che si esigeva a tavola. Il vero gentiluomo, secondo i trattati del tempo, non manifestava né fame né sazietà; parlava poco di cibo e, se lo faceva, lo faceva per esprimere gusto o cultura gastronomica, mai necessità.

La regola dunque non nasceva da un motivo religioso o scaramantico, ma da una precisa visione socioculturale: evitare di ridurre la tavola, luogo di rappresentanza e di armonia, a una scena in cui il corpo domina la parola.

Analisi linguistica e trasformazione dell’uso

Dal punto di vista linguistico, “buon appetito” appartiene alla categoria degli auguri di cortesia, analoghi a “buona giornata” o “buon riposo”. Tuttavia, la sua struttura rivela un tratto distintivo: l’aggettivo “buon” è qui collegato a un sostantivo che esprime una condizione fisiologica. In tal senso, la formula mette in luce un elemento della materialità umana che, in certi contesti, poteva apparire sconveniente.

Con l’evoluzione della società europea e l’emergere della borghesia urbana, il codice aristocratico perse parte del suo rigore. Tra Ottocento e Novecento, “buon appetito” si diffuse nei contesti familiari e pubblici, diventando una forma di gentilezza quotidiana, priva delle connotazioni di classe originarie. Tuttavia, i maestri del galateo continuarono a considerarla un’espressione di cordialità semplice ma non elegante, da evitare nelle situazioni più formali.

L’etichetta a tavola secondo il galateo

I manuali di buone maniere dell’Ottocento e del primo Novecento, da Melchiorre Gioia a Donna Letizia, concordavano su un punto: non si augura “buon appetito” perché il pasto deve cominciare in modo naturale e discreto, senza sottolineare ciò che è evidente. Secondo il galateo classico, il gesto più raffinato è attendere che il padrone di casa inizi o inviti gli ospiti a servirsi, magari accompagnando il momento con una frase neutra come “servitevi pure” o “possiamo cominciare”.

Dire “buon appetito” sarebbe, secondo questa logica, un modo per spostare l’attenzione dal convivio al bisogno, dal dialogo al desiderio fisico. Un errore sottile ma significativo, poiché la tavola, nel linguaggio delle buone maniere, è innanzitutto un luogo di relazione e di misura.

Curiosità e interpretazioni popolari

Nel linguaggio popolare, tuttavia, la formula ha assunto un significato più affettivo e conviviale. Dire “buon appetito” è diventato un gesto di cortesia spontanea, spesso accompagnato da sorrisi o da un tono familiare. In molti contesti regionali italiani, soprattutto nel Meridione, la frase è usata come segno di ospitalità e di calore umano, più che come convenzione formale.

In certi ambienti colti, però, la resistenza alla formula è sopravvissuta come traccia di un’antica raffinatezza linguistica. Nei ristoranti di alta cucina o nelle cerimonie ufficiali, si preferisce ancora evitare l’espressione, considerandola poco consona alla sobrietà del tono. Al suo posto si usano frasi neutre come “prego”, “si accomodi”, oppure si lascia che il gesto del servizio parli da sé.

È interessante notare come, in questa apparente semplicità, si conservi la memoria di un intero sistema di valori. Il rifiuto di dire “buon appetito” non è una forma di snobismo, ma il retaggio di una cultura che ha trasformato il pasto in rito sociale, dove le parole contano quanto i gesti e dove il silenzio, talvolta, è la più elegante delle formule.

Il valore culturale dell’espressione

Analizzando questa abitudine linguistica con occhio filologico, si può dire che “buon appetito” rappresenta un perfetto esempio di come le parole rispecchino le gerarchie del gusto e del potere. Un’espressione nata come augurio sincero tra persone di pari condizione è stata per secoli esclusa dal linguaggio dell’élite, per poi essere recuperata, in epoca moderna, come segno di familiarità e di informalità.

Dietro la sua apparente semplicità, la frase racconta dunque la storia del rapporto fra linguaggio e corpo, fra il bisogno e la cultura, fra ciò che si tace e ciò che si condivide. E, come accade per molti modi di dire, il suo valore non risiede tanto nelle regole del galateo, quanto nella stratificazione di significati che il tempo vi ha depositato.