Catullo, il massimo interprete della nuova poesia
I neoteroi si abbandonano all’otium e ai sentimenti ad esso legati, ma se temi e contenuti sono all’insegna del disimpegno, forma e stile rispondono a criteri rigorosi
Alla crisi che colpisce la Roma repubblicana del I secolo a.C., rispose una nuova generazione di poeti, che in totale rottura con la tradizione del passato, impose un rinnovamento del gusto letterario, dando vita a quell’estetica “moderna”, che rappresenterà una svolta decisiva nella storia della letteratura latina. Con tono sprezzante e senza volerlo, fu Cicerone a coniarne il nome, definendo i protagonisti di questa avanguardia poetica dalle tendenze innovatrici come poetae novi o, alla greca, neòteroi.
L’apparizione sulla scena romana dei “poeti moderni” fu solo il più evidente degli inevitabili cambiamenti ingenerati dalle grandi conquiste del secolo precedente, con l’allargamento degli orizzonti di Roma sino all’area orientale del Mediterraneo e la conseguente contaminazione con popolazioni abituate a forme di vita più raffinate rispetto alla arcaica società di contadini-soldati romana.
La rivoluzione del gusto letterario venne infatti accompagnata da una più generale rivolta di carattere etico. Il lento ma progressivo indebolimento dei valori della tradizione lasciò dunque strada al prepotente emergere di esigenze nuove, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità. In particolare Il rifiuto della vita impiegata al servizio della comunità, del modello del cittadino-soldato, si diffuse sulla scorta dell’epicureismo, di una filosofia cioè che predicava una vita appartata e tranquilla, nell’intima comunione con gli amici.
La poesia neoterica
I poeti neoterici, oltre alla predilezione per la letteratura “alessandrina”, ne imitavano gli aspetti eruditi e preziosi, il gusto per la contaminatio tra i generi, l’interesse per la sperimentazione metrica, la ricerca di un lessico e di uno stile sofisticati e,soprattutto, il carattere leggero e disimpegnato.
In realtà, una proto forma di nuova poesia era già apparsa a Roma sul finire del II secolo, quando negli ambienti dell’élite colta si era diffuso un tipo di lirica, ridotta e giocosa, destinata al consumo privato, chiamata “nugae”, letteralmente “sciocchezze”, “quisquilie”, e che rispecchiava il dilagare dell’otium, inteso sempre più come spazio da sottrarre agli impegni civili e come rivendicazione di spazi privati da dedicare alle esigenze individuali.
Rispetto a questi esempi però la poesia propriamente neoterica si distaccava completamente dalla tradizione letteraria latina, dilatando l’otium fino a porlo al centro dell’esistenza stessa e facendo dei suoi piaceri i valori assoluti e le ragioni esclusive del vivere. Inoltre, a differenza degli epicurei, i neòteroi non si ponevano come fine l’atarassia, il piacere di vivere senza turbamenti, e non ritenevano l’eros “una malattia insidiosa”, fonte di angoscia e dolore, tutt’altro. Come ben rappresentato da Catullo, l’amore era il sentimento centrale della vita, costituendone il fulcro e la ragione essenziale, e di conseguenza diventava anche il tema privilegiato della nuova poesia, che di esso si alimentava.
Se il disimpegno è la regola che governa i contenuti della nuova poesia, l’ossessione callimachea per la forma gli fa da contraltare. La cura scrupolosa della composizione e il paziente labor limae ne costituiscono infatti i tratti distintivi primari, come la brevitas, che porta i neòteroi a prediligere l’epigramma e l’epillio, utili ai poeti per fare sfoggio della propria erudizione e attuare raffinate strategie compositive, come i racconti “a incastro”.
Catullo
Catullo e la sua poesia sono tradizionalmente considerati la stella polare della rivoluzione neoterica e, anzi, ne rappresentano il documento più importante. Nel momento di crisi acuta della res publica romana, l’otium individuale diventava l’alternativa mai sperimentata alla vita collettiva, l’intimo spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie, all’amore, in definitiva a se stessi e alla propria crescita personale.
Nato a Verona, nella Gallia Cisalpina, Valerio Catullo frequentò Roma e i suoi personaggi di spicco in ambiente politico e letterario, dal celebre oratore Ortensio Ortalo, ai poeti Cinna e Calvo, da Manlio Torquato, a Cornelio Nepote a Clodia, la Lesbia dei suoi versi, come rivelato da Cicerone.
Della sua opera ci giungono 116 carmi, quasi 2.300 versi, raccolti in un Liber diviso per comodità su base simmetrica in tre sezioni:
- i carmina 1-60, contenenti le cosiddette nugae, componimenti brevi e di carattere leggero;
- i carmina 61-68, o carmina docta, cioè testi più lunghi e stilisticamente elaborati;
- i carmina 69-116, che sono sostanzialmente degli epigrammi in distici elegiaci.
Uno scherzoso invito a cena, il benvenuto a un amico che torna dalla Hispania, piuttosto che le proteste per un gesto poco urbano, sono solo alcuni dei temi oggetto della poesia di Catullo, che mette in versi aspetti minori o minimi dell’esistenza, associandoli ad affetti, amicizie, odi e passioni, ed è proprio questa occasionalità nella scelta degli argomenti a restituire quell’impressione di immediatezza che l’ha resa celebre.
L’equivoco più frequente in cui si cade è però quello di valutare la lirica catulliana proprio per la sua apparente estemporaneità, quando in realtà cela sempre riferimenti dotti ed è quanto di più lontano da una poetica occasionale e non solo per l’impeccabile “vestito” stilistico e formale.
Lezioni di stile
Quello di Catullo è dunque un linguaggio scaturito da un’originale combinazione fra il lessico letterario e colto e il sermo familiaris, nella quale al gusto ricercato si coniuga la cruda espressività di certi volgarismi, “studiati” per compiacere lo snobismo di un’élite colta che ama esibire il turpiloquio accanto all’erudizione più raffinata. Uno stile composito e sempre vitale, in grado di spaziare dallo sberleffo irridente o l’invettiva sferzante e scurrile, alle morbidezze del linguaggio amoroso, alla pacata malinconia, piuttosto che agli abbandoni di certi momenti elegiaci.
La poetica di Lesbia
Protagonista indiscussa della poesia catulliana, la figura di Lesbia è allo stesso tempo incarnazione diretta anche della sua poetica, simbolo della devastante potenza dell’eros, che alla grazia e alla bellezza non comuni delle fattezze, unisce intelligenza, cultura, spirito brillante e modi raffinati.
Un amore scandito dall’alternarsi di gioie, sofferenze, tradimenti, abbandoni, rimpianti, speranze e disinganni, vissuto da Catullo come l’esperienza centrale della propria esistenza, unica in grado di riempirla e di risarcire la fugacità della vita umana. Tanto da profondere per esso tutto il proprio impegno, venendo meno ai doveri e agli interessi propri del civis romano, per pedersi nell’otium dei sentimenti per Lesbia.
Eppure, per uscire dall’instabilità della relazione adulterina, arriva ad invocare i due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano, la fides e la pietas, affinché la nobiliti, aiutandolo a vincere il conflitto interiore tra cuore e cervello, vittima di una passione incontrollabile e allo stesso lucidamente disinnamorato di quella donna che gli procura tali sofferenze, il noto ossimoro “odi et amo”.