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Bucoliche e Georgiche di Virgilio

Le prime sono una raccolta di 10 ecloghe in esametri che verte sulla vita pastorale, le seconde un poema didascalico su quella agricola

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

Le Bucoliche

Le Bucoliche (dal greco βουκόλος = pastore, mandriano, bovaro) sono un’opera di Publio Virgilio Marone, iniziata nel 42 a.C. e divulgata tre anni più tardi. Si tratta di una raccolta di dieci ecloghe (da κλογαί, ovvero “poesie scelte”) in esametri – 829 per la precisione – dedicate alla vita pastorale e che rappresentano il primo frutto della poesia dell’autore latino e, allo stesso tempo, la trasformazione in linguaggio poetico dei precetti di vita appresi dalla scuola epicurea di Napoli. Sono ambientate in una realtà particolarmente drammatica, quella della penisola italica nel I secolo a.C., messa in ginocchio dalla guerra civile. Virgilio, che aveva assistito da piccolo alla congiura di Catilina e poi all’ascesa di Giulio Cesare, alla guerra con Pompeo e al suo assassinio nel 44 a.C., quindi alla lotta tra cesariani e pompeiani, scrive le Bucoliche mentre Ottaviano Augusto trionfa a Filippi. Questi, però, al suo ritorno a Roma, espropriò i contadini delle loro terre al fine di ridistribuirle tra i veterani come ricompensa per i servigi resi: tale scelta fu vissuta da Virgilio come una vera e propria barbarie. La prima ecloga mette in scena il dialogo tra due pastori: Melibeo, costretto ad abbandonare la sua patria perché privato dei suoi beni, e Titiro, che si riposa all’ombra di un faggio intonando un canto silvestre dopo esser riuscito a mantenere i propri possedimenti. Il primo, pur senza invidia, si chiede come sia possibile tale disparità di trattamento e il motivo è dovuto all’intervento di un giovane dio. La seconda rappresenta il monologo del pastore Coridone che canta il suo amore disperato e non corrisposto per il giovanissimo Alessi, servitore e amante del ricco Iolla. La terza è una gara di canto tra due pastori, Dameta e Menalca: la posta sono una vitella e due tazze di faggio, mentre l’unico uditore e giudice, Palemone, dichiarerà la parita. Nella quarta, scritta dopo lo scontro tra Ottaviano e Lucio Antonio e la pace di Brindisi, Virgilio, di solito lontano dalla vita politica, dimostra grande entusiasmo per questo accordo, celebrando l’imminenza del ritorno dei Saturnia Regna in seguito alla nascita di un “bambino divino”, che avrebbe posto fine al tragico presente per inaugurare una nuova età dell’oro. La quinta tratta di due pastori abilissimi nell’arte del canto, Menalca e Mopso, che non si sfidano, ma anzi si dimostrano la reciproca ammirazione. La sesta è una sorta di dedica ad Alfeno Varo, il quale desiderava da Virgilio un’epopea che lo onorasse e narrasse le guerre civili (in realtà, essa è diretta a Gallo, ma la pagina porta scritto in cima il nome di Varo). Quindi, dopo l’ammonimento di Apollo nei confronti di Titiro (che rappresenta Virgilio stesso), segue il canto di Sileno, il capo dei satiri trovato addormentato per il vino bevuto il giorno prima insieme alla ninfa naide Egle, che gli tinge la fronte con un succo di more. La settima è un’altra gara di canto, tra Coridone e Tirsi, con Melibeo che fa da giudice: a trionfare sarà il primo, che dedica le proprie note ancora una volta all’amato Alessi. Analogamente alla precedente, nell’ottava a sfidarsi sono Damone e Alfesibeo, in quella che sembra un’ecloga volta a celebrare la fama di Asinio Pollione, pur mai menzionato. Damone è disperato perché la fanciulla che ama, Nisa, ha preferito Mopso e per questo ha intenzione di suicidarsi, mentre Alfesibeo narra di una donna che, con l’aiuto dell’ancella Amarillide, compie un rito magico per far sì che l’amato Dafni ritorni. Nella nona si apprende che Menalca non è riuscito a salvare i suoi beni e a nulla sono serviti i carmi. Per provare a dargli sollievo, invano, Licida gli ricorda le promesse fatte dai triumviri: in grazia dei suoi canti avrebbe potuto mantenere i suoi campi. Egli incarna il personaggio di Melibeo della prima ecloga ma, a differenza di quest’ultimo, non accetta l’esilio, rimane nella propria casa. Nell’ultima, invece, la natura, i pastori e le divinità olimpiche e pastorali, impietosite per il grande dolore di Gallo causato dall’amore non corrisposto per Licoride, prendono parte alle sue pene d’amore e cercano di consolarlo.

Le Georgiche

Le Georgiche (in latino Georgica, che deriva dal greco γεωργικός, “contadino” o “agricoltura”) sono un poema didascalico di Publio Virgilio Marone che tratta la vita agricola. Si divide in quattro libri dedicati rispettivamente al lavoro nei campi, all’arboricoltura, all’allevamento del bestiame e all’apicoltura, per un totale di 2188 esametri, e il titolo, con tutta probabilità, deriva da un’opera del poeta greco Nicandro di Colofone. Nel I tomo – ispirato alle Opere e i Giorni di Esiodo – l’autore descrive in maniera particolarmente semplice il motivo del poema, vale a dire l’invito di Ottaviano Augusto a vivere in campagna, e al suo interno ci sono la dedica a Mecenate e al Princeps e la spiegazione dei vari aspetti della coltivazione dei cereali e dei segni del tempo (dalla qualità dei terreni ai metodi come aratura e semina, passando per gli ‘indizi celesti’ che il pastore deve saper cogliere se vuole evitare le calamità naturali). Inoltre, hanno rilevante importanza gli excursus sulle origini del labor, del calendario e dei prodigi del cielo avvenuti dopo la morte di Cesare. Alla fine, invece, Virgilio racconta la devastazione provocata nei campi dalle guerre civili, così come i timori catastrofici dell’umanità e le speranze riposte nell’astro nascente di Ottaviano. Nel II, poi, troviamo l’invocazione a Bacco e la descrizione della coltivazione delle piante, temi narrati con toni festosi. L’attenzione principale è riservata alla vite, la cui coltivazione è complessa e richiede perizia, e all’olivo, una pianta longeva e di semplice coltura. Vi è quindi una lode all’Italia, una terra tanto fertile quanto ricca di eroi, e un’altra alla primavera, che anticipa l’elogio della serena vita agreste. Il III libro si apre con un’invocazione agli dèi, una lode ad Augusto e un preludio dell’Eneide, per passare poi a un’esposizione dei metodi di allevamento del bestiame, da buoi e cavalli a pecore e capre, oltre a una sezione dedicata a cani e serpenti. Altro tema affrontato è quello delle difficoltà riscontrate dai pastori, soprattutto in Africa e in Scizia, contro la forza della Natura, ma anche quello della pestilenza che sterminò il bestiame nel Norico. Infine, nel IV e ultimo tomo, Virgilio rivolge una nuova dedica a Mecenate e un’ulteriore invocazione ad Apollo. Quindi, affronta una dettagliata descrizione dell’apicoltura, riguardo abitudini, specie, stagione migliore (tarda estate) e metodologie per prelevare il miele e come curare le malattie che colpiscono le api. L’excursus è sul vecchio di Còrico e sulla narrazione dell’epillio del pastore Aristeo, con l’inserimento di una digressione del mito di Orfeo ed Euridice, che potrebbe aver preso il posto di un elogio a Gaio Cornelio Gallo, amico del poeta e caduto in disgrazia a causa di una presunta congiura nei confronti dell’imperatore. Nell’epilogo, Virgilio ricorda il soggiorno napoletano e la composizione delle Bucoliche.