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Alceo: il poeta eclettico della poesia lirica greca

Nelle sue opere alternò tematiche civili e politiche all'amore per donne, tra cui Saffo, e fanciulli, oltre che per il vino

Paolo Marcacci

Paolo Marcacci

INSEGNANTE DI LETTERE, GIORNALISTA PUBBLICISTA, SPEAKER RADIOFONICO, OPINIONISTA TELEVISIVO

Ho trasformato in professione quelle che erano le mie passioni, sin dagli anni delle elementari. Dormivo con l'antologia sul comodino e le riviste sportive sotto il letto. L'una mi è servita per diventare una firma delle altre. Per questo, mi sembra di non aver lavorato un solo giorno in vita mia.

Chi era Alceo

Alceo nacque in una famiglia aristocratica a Mitilene, il principale centro dell’isola di Lesbo, all’incirca nel 630 a.C., in un periodo di lotte continue fra le classi più abbienti della società, desiderose di conservare i propri privilegi, e i cosiddetti uomini nuovi che, appoggiandosi spesso alle forze di un popolo insofferente, tentarono di salire al potere. Il poeta fu un ardente sostenitori degli aristocratici eolici e fu implicato, insieme ai suoi fratelli Kikis ed Antimenida, in alcune controverse vicende locali. Furono proprio quest’ultimi, insieme a Pittaco nel 612 a.C., a spodestare il tiranno Melancro della famiglia dei Cleanattidi, generando però nuovi violenti scontri fra i nobili e il popolo. Tuttavia, quando a prendere il potere fu Mirsilo, Alceo, che aveva partecipato a una congiura (probabilmente denunciata dallo stesso Pittaco), fu mandato in esilio a Pirra, altra città dell’isola natia. Alla morte del nuovo tiranno, tuttavia, il poeta fece ritorno in patria, intonando un celebre canto di giubilo: “Era ora! Bisogna prendere la sbornia. Bisogna bere a viva forza, dal momento che è morto Mirsilo“. La quiete durò poco, perché già nel 600 a.C. Pittaco, con il quale aveva combattuto fianco a fianco nella battaglia del Sigeo contro Atene per il possesso dell’Achilitide, condividendone le delusioni della sconfitta e della fuga, infranse il patto di “non tradire mai e di giacere morti, in una coltre di terra, uccisi dai tiranni, o ucciderli, e scampare da tanti mali il popolo“. Egli divenne l’aisymnètesσυμνήτης), cioè il capo supremo del popolo, in quella che Aristotele definì una “tirannide elettiva”. Anche se riuscì a governare con imparzialità e saggezza, al punto da essere annoverato dalla tradizione fra i Sette Sapienti, non fu mai perdonato dall’aristocrazia locale – e in particolare da Alceo – per il suo tradimento: “È d’un ramo bastardo, Pittaco. E l’hanno fatto tiranno d’uno Stato maledetto e senza nerbo. Per acclamazione“. Il poeta si scagliò contro l’ex amico di vecchia data al fine di evocarne l’esistenza abietta, appellandosi a lui come “il panciuto“, “il pingue e carnoso” e “il piedi slarganti spazzanti la terra“, rimediando così un nuovo esilio, probabilmente in Egitto (o in Tracia). Fece ritorno a casa dieci anni dopo, quando Pittaco, sul punto di lasciare la propria carica, decise di perdonare tutti i propri nemici, Alceo compreso, perché “il perdono è superiore alla vendetta“. Il poeta, stremato dopo un decennio duro, soprattutto da un punto di vista emotivo, trovò rifugio nel vino (“Il dono dell’oblio“), grazie al quale riuscì a dimenticare le pene vissute. Ebbe così modo di morire, in una data sconosciuta, in tarda età nella propria patria.

La passione per Saffo

Secondo numerose testimonianze, anche se quasi tutte soggette a controversie, Alceo ebbe un legame con una sua famosa conterranea: Saffo. Una prima fonte sarebbe costituita da alcuni versi del poeta stesso – “Crine di viola, eletta, dolceridente Saffo” – riportati nel II secolo da Efestione. Alcuni autori contestano la traduzione del nome della donna, mentre il filologo Bruno Gentili, che attribuisce a Saffo la destinazione di questi versi, ritenne che non si trattasse di un canto d’amore, bensì di una riverenza verso la poetessa e la sua dignità sacrale. Se dei due ne parlò anche Aristotele, forse in relazione a un testo che li vedeva protagonisti, Ermesianatte raccontò lo sfortunato amore di Alceo nella sua raccolta elegiaca ‘Leonzio’: “Sai bene Alceo di Lesbo a quante baldorie dovette sobbarcarsi, cantando il suo delizioso desiderio di Saffo”. Il legame biografico fra i poeti, infine, sarebbe anche dimostrato da alcune opere vascolari precedenti la composizione della Retorica aristotelica ma, secondo Luciano Canfora, queste testimonianze non sarebbero altro che “un segno dell’accanimento con cui si è elucubrato sulla biografia” degli autori.

Poetica ed opere

Alceo fu uno dei principali esponenti, insieme proprio a Saffo e ad Anacreonte, della cosiddetta lirica monodica, vale a dire un tipo di poesia soggettiva che nacque al di fuori del culto pubblico e della vita della collettività. Pertanto, essa non era destinata al popolo, bensì ad una cerchia ristretta (nel caso di Alceo l’eteria, ossia il circolo aristocratico) e la materia del canto altro non fu che la vita del poeta medesimo in tutte le sue manifestazioni. Le sue liriche, divise per argomenti, vennero riordinate in età alessandrina dai grammatici Aristofane di Bisanzio ed Aristarco di Samotracia, che diedero vita a dieci libri, al cui interno troviamo gli ‘Inni’ (ad Apollo, Hermes e i Dioscuri), i ‘Peani’ (canti corali in onore di Apollo), i ‘Carmi della lotta civile’ (canti politici e d’indole battagliera), i ‘Canti conviviali’ (una celebrazione dei lieti banchetti e dei convitti dell’eteria, con un invito alla baldoria in seguito alla morte del tiranno Mirsilo) e i ‘Canti erotici’ (aventi come destinatario non solo donne, ma anche fanciulli). In totale, restano all’incirca 400 frammenti, abbastanza per darci l’immagine di un artista eclettico, capace di trasformare la propria poesia da civile e politica, durante la giovinezza, ad una rivolta all’amore, a trecentosessanta gradi senza distinzioni di genere, fino – in vecchiaia – all’esaltazione del vino, “l’unico amico che non lo ha mai tradito“, come affermato da Aristide Colonna.