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Edipo re, trama e spiegazione della tragedia di Sofocle

Inserita nel cosiddetto ciclo tebano, narra lo sconvolgente giorno vissuto dall'amato e carismatico sovrano in cui venne a conoscenza del proprio terribile passato: egli, infatti, e a sua totale insaputa, uccise il proprio padre e generò i suoi figli con la madre

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

La tragedia, che si ipotizza possa essere stata rappresentata da Sofocle all’apice della propria attività artistica, e quindi tra il 430 e il 420 a.C., è stata rielaborata in ambito psicanalitico da Sigmund Freud: con complesso di Edipo, infatti, si descrivono le pulsioni – anche di natura sessuale – che proverebbero i bambini nei confronti della madre, in un’ottica di possessività esclusiva e, al contempo, il desiderio della morte del padre. Diametralmente opposto, con soggetto le bimbe, invece, è il complesso di Elettra.

Edipo re: la scoperta dell’assassinio

La tragedia ha inizio con il re Edipo impegnato a salvare la sua città, Tebe, falcidiata dalla peste. Implorato dal popolo di debellare la terribile epidemia, l’illuminato sovrano risponde di aver già incaricato il cognato Creonte di consultare l’oracolo di Delfi. Il responso è inequivocabile: Tebe sta pagando l’uccisione, rimasta impunita, del precedente re, Laio, e finché non verrà trovato, esiliato o ucciso l’assassino, non vi sarà posto per pace e prosperità. Secondo Creonte, il precedente sovrano sarebbe stato – a detta di un testimone oculare – ucciso dai briganti mentre si recava anch’egli all’oracolo di Delfi, al tempo in cui la città si trovava soggiogata dalla Sfinge, in un punto in cui tre diverse strade si toccavano. Edipo decide quindi di proclamare un bando finalizzato all’identificazione dell’omicida e di chiunque gli offra protezione e, per raggiungere tale scopo, convoca anche l’indovino cieco Tiresia, che si rifiuta tuttavia di parlare, certo che, se lo avesse fatto, avrebbe attirato ulteriori sventure. Il re, in preda alla collera, intima il veggente più volte di pronunciare il nome dell’assassino di Laio, ma egli si trincera nel silenzio, fin quando non viene tacciato di impudenza. La rivelazione è sconvolgente: a commettere omicidio fu proprio Edipo, il quale ipotizza di essere vittima di un complotto allo scopo di detronizzarlo. Tiresia, dal canto suo, si allontana dalla scena predicendo che entro la fine della giornata il colpevole sarà scoperto e lascerà la città mendico e non vedente. Creonte si giustifica con il sovrano, affermando di non aver ordito nei suoi confronti e di non essere interessato al trono, ma i toni si fanno sempre più accesi, fino all’intervento di Giocasta, vedova di Laio e nel frattempo divenuta moglie di Edipo, la quale cerca di calmare il marito invitandolo a non dare ascolto né agli oracoli né agli indovini, ricordando come anche al defunto ex reggente fosse stato predetta un’uccisione per mano del proprio figlio ma che, come noto a tutti, responsabili della sua morte furono dei banditi. Il nobile intento di Giocasta, per suo stupore, finisce tuttavia per turbare ancor di più Edipo il quale, messo alle strette dalla consorte, confessa che, da giovane, era il principe ereditario di Corinto, figlio del re Polibo e che un giorno l’oracolo di Delfi gli predisse che avrebbe ucciso il proprio padre e sposato la propria madre. Per tale motivo decise di fuggire e, diretto a Tebe, in un punto in cui confluivano tre strade, litigò con un uomo e lo uccise.

Edipo re, l’epilogo

A questo punto fa il proprio ingresso sulla scena un messo, proveniente da Corinto, che informa Edipo della morte di suo padre Polibo. Il re di Tebe si sente rassicurato da queste parole, in quanto il genitore non è passato a miglior vita a causa sua, una sensazione di rilassamento che dura però pochissimo, e cioè fino a quando – preoccupato che potesse ancora avverarsi la profezia secondo la quale sarebbe convolato a nozze con la madre – chiede informazioni su di lei: “Non devi preoccuparti – la risposta -, perché loro non sono i tuoi genitori naturali, ma ti hanno adottato quando eri piccolo“. Era stato proprio il messo, infatti, a ricevere il neonato Edipo da un servo della casa di Laio e a portarlo a Corinto. Il sovrano tebano, ormai vicino a scoprire la verità sulle proprie origini, ordina che sia convocato in città lo schiavo, mentre Giocasta, che aveva nel frattempo ricomposto ogni tassello del puzzle, lo implora di lasciar perdere, ma non viene ascoltata. Lo stesso servo è riluttante a parlare ma, pressato da Edipo, non può esimersi e rivela al re di come gli fosse stato assegnato – dopo la pronuncia dell’oracolo di Delfi – con l’ordine di ucciderlo, imposizione alla quale contravvenne per pietà nei confronti di un neonato. Scoperto il terribile arcano, il sovrano rientra nel suo palazzo al grido di “luce, che io ti veda ora per l’ultima volta“. Giocasta, in preda al dolore, decide di impiccarsi ed Edipo, appena accortosene, si acceca con la fibbia della veste della donna, affermando che, essendo maledetto, non avrebbe avuto più nulla di dolce da guardare. Creonte prova a consolarlo, esortandolo ad avere fiducia in Apollo, ma egli abbraccia un’ultima volta le figlie Antigone e Ismene, compiangendole per il fatto che – in quanto frutto di un rapporto incestuoso – sarebbero state emarginate dalla società, e chiede a Creonte di essere esiliato in quanto uomo in odio agli dèi.

Edipo re, la spiegazione

La tragedia di Sofocle si sviluppa attorno all’evoluzione del personaggio del re Edipo, inizialmente osannato dal proprio popolo e poi abbandonato al suo triste destino, e tratta in maniera sublime la fragilità dell’essere umano di fronte agli imprevisti della vita, che possono portarlo ‘dalle stelle alle stalle’ in un solo attimo. Quello del sovrano di Tebe è un personaggio maledetto, condannato a una sorte – cieca e non intenzionale – che non può cambiare in nessun modo, neppure fuggendo da quelli che considerava i suoi veri genitori, finendo così per diventare – a sua totale insaputa – l’assassino del padre naturale e il marito della donna che l’aveva messo al mondo, con la quale genererà dei figli frutto di un incesto. In altre parole, viene rappresentato in maniera magistrale l’eterno dualismo tra volontà divina (o predestinazione) e libero arbitrio (o responsabilità individuale). Va detto che, già nell’Atene del V secolo, era ormai prassi consolidata quella di reputare deprecabile soltanto i comportamenti assunti consapevolmente, pertanto, è lecito immaginare che la tragedia, all’epoca, sia apparsa agli spettatori come una storia proiettata in un passato ormai lontano e dimenticato, quasi primitivo. Inoltre, la determinazione di Edipo di andare fino in fondo e conoscere la verità, per quanto dolorosa, può essere interpretata anche con un’accezione negativa, la cosiddetta hybris, ossia la tracotanza di chi non accetta i propri limiti e finisce per pagarne le conseguenze sulla propria pelle.