Salta al contenuto

La cosiddetta questione omerica

Paolo Marcacci

Paolo Marcacci

INSEGNANTE DI LETTERE, GIORNALISTA PUBBLICISTA, SPEAKER RADIOFONICO, OPINIONISTA TELEVISIVO

Ho trasformato in professione quelle che erano le mie passioni, sin dagli anni delle elementari. Dormivo con l'antologia sul comodino e le riviste sportive sotto il letto. L'una mi è servita per diventare una firma delle altre. Per questo, mi sembra di non aver lavorato un solo giorno in vita mia.

La questione omerica nell’antichità

Sin dall’antichità si è dibattuto sulla paternità dell’Iliade e dell’Odissea, oltre che sull’esistenza stessa di colui che si ritiene da sempre esserne l’autore: Omero. Ci sono testimonianze, infatti, di una versione dei due poemi già al tempo di Pisistrato, ad Atene nel VI secolo a.C.: si trattava di una sorta di edizione nazionale che prevalse su quelle delle comunità cittadine, che circolavano da tempo in tutta la Grecia. Per questo motivo, molti studiosi considerano questa come la nascita della questione omerica, sottolineando che – dopo numerose ricerche e analisi effettuate – sembrerebbe che l’Iliade e l’Odissea abbiano qualche secolo di differenza. Se ciò fosse vero, nella migliore delle ipotesi, Omero avrebbe potuto scrivere soltanto uno dei due poemi. Altri storici, invece, datano la questione omerica al III secolo a.C., in epoca ellenistica, quando due grammatici alessandrini, Xenone ed Ellanico, criticati alcune centinaia di anni dopo da Aristarco di Samotracia, Zenodoto di Efeso e Aristofane di Bisanzio, evidenziarono numerose discrepanze di contenuto fra l’Iliade e l’Odissea, giungendo alla conclusione che fossero stati scritti da due persone diverse e guadagnandosi così l’appellativo di χωρίζοντες (chorizontes), ovvero separatori.

Da D’Aubignac e Vico a Wolf

Negli ultimi secoli del Medio Evo, e nei primi del Rinascimento, si assistette ad uno sviluppo di questo dibattito, fino al 1664, quando François Hédelin, abate d’Aubignac, lesse in pubblico un suo scritto dal titolo ‘Conjectures accadémiques ou dissertation sur l’Iliade’. Si trattava di una dissertazione, pubblicata postuma nel 1715, che aveva l’intento di difendere la qualità letteraria del poema dal dilagante disprezzo nella società francese. D’Aubignac, tuttavia, era convinto che Omero non fosse mai esistito e che l’Iliade altro non fosse che un’incoerente mescolanza di vari canti composti in età diverse (una ‘petite tragedie’). Egli, che non conosceva il greco, si era approcciato ai poemi omerici soltanto mediante traduzioni latine (in particolare quelle di Jean de Sponde). Sosteneva inoltre che, dal momento che al tempo di Omero la scrittura non esisteva ancora, l’Iliade, a causa della sua lunghezza, non avrebbe potuto essere tramandata oralmente. Completamente opposto, invece, fu il giudizio di Giambattista Vico che, anticipando teorie riprese poi dai Romantici, affermava che la poesia omerica non potesse essere opera di un solo autore ma di tutto il popolo greco nel suo ‘Tempo Favoloso’. Intere generazioni di cantori popolari, che si celavano dietro il nome di Omero, avrebbero via via aggiunto sempre nuovi canti.

Wolf, il padre della questione omerica

Se le teorie di Vico non scaldarono il cuore dei suoi contemporanei, altrettanto non si può dire per D’Aubignac, i cui scritti influenzarono la celebre opera di Friedrich August Wolf ‘Prolegomena ad Homerum’ (Introduzione ad Omero), apparsa nel 1795 e considerata ancora oggi la prima trattazione del poema a livello scientifico e, pertanto, la progenitrice della cosiddetta questione omerica. Si tratta un’introduzione ad un’edizione critica dei due poemi, nella prima metà costituita da un’omerologia antica e nella seconda da un’analisi più approfondita della tesi dell’abate francese, accompagnata da citazioni e testimonianze. La fortuna del filologo tedesco fu anche accidentalmente legata ad un particolare evento letterario: l’anno successivo alla pubblicazione del suo scritto, infatti, moriva il poeta scozzese James MacPherson, autore dei Canti di Ossian, una raccolta di poemetti che egli diceva esser stati tramandati per via orale da Ossian, un bardo vissuto nel III secolo (si trattava, invece, di un abile falso letterario, nato quasi integralmente dalla mano dello scrittore moderno). Ad ogni modo, equiparando Omero ad Ossian, tale storia offriva una precisa conferma della tesi di Wolf, che ispirò un’intera corrente di filologi e che porterà ad una vera e propria spaccatura: da una parte gli unitari, che attribuiscono ad Omero almeno uno dei due canti, generalmente l’Iliade, se non entrambi, e da un’altra gli analitici, che disconoscono Omero come padre dei due poemi. All’interno di questo gruppo, poi, sorse un’ulteriore divisione: i seguaci della teoria del nucleo primitivo inaugurata da Hermann, secondo cui in origine ci sarebbero stati due canti (sull’ira di Achille e sul ritorno di Odisseo, poco per volta ampliati da intere generazioni di rapsodi), e quella dei canti sparsi, introdotta da Karl Lachmann e dal suo discepolo Kirchhoff, che credeva nell’esistenza di canti autonomi o poemetti minori che formarono un agglomerato di canti, poi cuciti nei due poemi epici attuali da un altro autore. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, con il suo scritto del 1916 ‘Die Ilias und Homer’, cercò di conciliare le due teorie, affermando che, intorno all’VIII secolo, in ambiente ionico, un poeta (probabilmente) di nome Omero, attingendo alla tradizione rapsodica della sua terra, avrebbe fuso i Kleinepen (primi nuclei) in un Grossepos (grande poema epico), a cui si sarebbero poi aggiunti i nuovi canti.

La teoria oralistica di Parry

Un’importante svolta nell’ambito della questione omerica si ebbe con le teorie di Milman Parry, convinto che Iliade ed Odissea nacquero all’interno di una cultura orale, in una società che non conosceva la scrittura. Esaminò le cosiddette “formule”, gruppi di due o più parole (e talvolta interi versi) che si ripetono in numerosi punti dei poemi omerici, immutati o con minime variazioni per adeguarsi al racconto e alla metrica. Inoltre, tali formule sembrerebbero spesso legate a temi anch’essi ricorrenti, come la battaglia, il consiglio e lo scudo dell’eroe, e ciò portò Parry – e i successivi studiosi – a dimostrare quanto poche fossero le parti non legate alle formule, considerate un retaggio della cultura orale, in quanto facilitavano ai rapsodi la memorizzazione di lunghi poemi. Questi, infatti, pur non imparando i poemi a memoria, in questo modo erano in grado di ripeterli, seppur con piccolo e continue variazioni, contribuendo alla nascita di nuove formule precostituite (gli epiteti). In altre parole, secondo la teoria di Parry, che mira a spiegare come in una cultura orale, che non può mettere nulla per iscritto, le nozioni debbano essere costantemente ripetute per evitare che vadano perse, portando quindi allo stereotipo, Iliade e Odissea altro non sono che il prodotto della cultura di un intero popolo, senza un autore preciso.