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L’infinito di Leopardi, spiegazione della celebre poesia

È l’immaginazione la forza che ci consente di superare ostacoli e barriere. Esteriori e interiori

Silvia Pino

Silvia Pino

GIORNALISTA PUBBLICISTA

Ho iniziato con le lingue straniere, ho continuato con la traduzione e poi con l’editoria. Sono stata catturata dalla critica del testo perché stregata dalle parole, dalla comunicazione per pura casualità. Leggo, indago e amo i giochi di parole. Poiché non era abbastanza ho iniziato a scrivere e non mi sono più fermata.

Quando Giacomo Leopardi compone L’infinito, nel settembre 1819, non può sapere quale immortale capolavoro stia lasciando ai posteri. Probabilmente l’unico interesse dell’allora ventenne poeta è quello di fuggire dall’oppressione paterna, che ne ha appena scoperto i piani di fuga, trattenendolo controvoglia a Recanati, e sceglie di farlo attraverso l’immaginazione, dandole libero sfogo attraverso il suo carme. Partendo dalla breve descrizione di un luogo familiare, approda alla vastità dell’Universo, di quel tutto verso cui tutto tende. E’ l’immaginazione quella forza misteriosa che ci consente di superare tutti gli ostacoli e le barriere, esteriori e interiori, per assorbire e trascendere la realtà in una nuova e profonda esperienza, sentimentale e fantastica, dell’infinito spaziale e temporale. I versi di Leopardi descrivono un uomo senza tempo in contemplazione di qualcosa che non può vedere, qualcosa di infinito come l’immaginazione.

Dove il nostro sguardo non giunge, lo fa quello interiore. L’immaginazione è la forza che abbiamo per superare gli ostacoli, dunque”. (Zibaldone, 1820)

Lirica, parafrasi e temi

Pubblicato nel Nuovo Ricoglitore solamente sul finire del 1825 e come primo dei 6 Idilli nell’opuscolo Versi del 1826, L’infinito occupa la dodicesima posizione all’interno dei Canti. Composto da 15 endecasillabi sciolti, cioè non legati da rime, che consentono all’autore maggiore libertà di espressione, il carme leopardiano in 10 versi su 15 ricorre all’enjambement, tramite il quale se da un lato si spezza la continuità della frase, modificando il ritmo dei versi, dilatandoli così da ottenere significativi effetti di straniamento e assecondare la proiezione verso l’infinito dell’animo del poeta, dall’altro si evidenziano alcune parole chiave della poesia, giocando con l’enfasi che ricevono dalla loro collocazione a ridosso della pausa finale del verso e che rimandano di nuovo al concetto di infinito.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

“Sempre caro mi è stato questo colle solitario e questa siepe che per gran parte impedisce di vedere un tratto dell’orizzonte. Ma stando seduto e guardando, immagino spazi interminabili oltre la siepe, e silenzio profondissimo e quiete assoluta tanto che il cuore quasi si spaventa. Quando sento le foglie delle piante stormire al vento, paragono la voce del vento con quel silenzio infinito: e mi viene in mente il pensiero dell’eternità, il passato ormai morto e l’oggi, presente e vivo, con il suo suono. Così, in questa immensità, annega il mio pensiero: e mi è dolce naufragare in questo mare”.

Analisi

La poesia si sviluppa sostanzialmente in due parti. Nella prima, costituita da sette versi e mezzo, a prevalere sono gli elementi visivi: la siepe che oscura l’orizzonte e ne ostacola la vista è allo stesso tempo l’elemento scatenante dell’immaginazione, tramite la quale varcare i limiti materiali per inoltrarti fra spazi e silenzi talmente infiniti da creare un moto dell’animo e un senso di smarrimento. Nella seconda parte, simmetrica alla prima e sempre di sette versi e mezzo, le percezioni visive lasciano spazio ai dati uditivi: il rumore del vento, che richiama ancora l’infinito, ma stavolta quello temporale, al quale l’anima si abbandona dolcemente.

Anche le scelte lessicali del Leopardi rimandano alla continua oscillazione fra realtà e infinito, dall’uso dei dimostrativi, con “questo” e “quello” utilizzati per definire ciò che sente “vicino” o “lontano” nella prima parte e che vengono ribaltati nella seconda, a quello dei vocaboli, da tre sillabe quelli riconducibili all’area semantica dell’infinito (orizzonti, interminati, sovrumani, profondissima, immensità), da due quelle appartenenti alla realtà percepibile dai sensi (caro, colle, siepe, vento), tramite le quali crea una contrazione del ritmo della poesia.

Immortale l’ultimo verso, in cui si ricorre a ben due figure retoriche: “E il naufragar m’è dolce in questo mare” contiene infatti sia una metafora, l’infinito paragonato al mare, sia un ossimoro, il naufragare apparentemente negativo, che si rivela in realtà un’esperienza dolcissima.

Significato

L’infinito ha la capacità di squarciare orizzonti e suscitare emozioni sempre nuove nel lettore. Il poeta, spirito inquieto e solitario, siede pensieroso sull’altura del monte Tabor, a ridosso di una siepe, che impedisce lo sguardo ma che pure suscita in lui una riflessione sulla capacità dell’immaginazione di trascendere il reale, prima portandolo verso spazi senza fine e silenzi che vanno oltre ogni possibile umana comprensione e poi lasciandogli percepire una quiete assoluta e una sensazione di smarrimento. Il rumore delle foglie e delle fronde, agitate dal vento, riporta alla realtà il poeta, ma allo stesso tempo evoca l’eternità, suggerendogli l’idea di infinito temporale, che avvolge le stagioni dell’uomo passate e presenti.

Leopardi, dunque, si concentra decisamente sulla propria interiorità, rapportandola ad una realtà spaziale e fisica, in modo da arrivare a ricercare l’Infinito. L’esercizio poetico si pone allora come superamento di ogni capacità percettiva, di cui la natura è il limite, visivamente rappresentato dalla siepe. Tra un impenetrabile silenzio e il suono della natura, il pensiero riesce a superare la contingenza di quel che lo circonda, arrivando a cogliere l’inafferrabile universalità dell’infinito.

L’infinito, però, nella visione dell’autore, non è reale, ma frutto dell’immaginazione dell’uomo. Esso rappresenta lo slancio vitale e la tensione verso la felicità propri di ogni uomo, richiamando così al principio stesso del piacere, quello di trovarsi in bilico tra la perdita del sé e il piacere che da ciò deriva. Per Leopardi, il desiderio di piacere è destinato a rinnovarsi attraverso sempre nuove sensazioni e allo stesso tempo a scontrarsi inevitabilmente con il carattere provvisorio della realtà. Ma se l’uomo non può essere appagato dai piaceri finiti dell’esperienza umana, questo limite non persiste nel campo dell’immaginazione, che diventa la via d’accesso ad un sentimento di piacere che si fonde con l’infinità del mare dell’essere. Una considerazione che cristallizza perfettamente il pessimismo del Leopardi, consapevole della vanità del suo tendere a un piacere assoluto e del fatto che sia tutto solamente frutto della sua immaginazione, destinato a scontrarsi inevitabilmente con i limiti imposti dalla vita umana: lo spazio, il tempo, la morte.