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La teoria delle costituzioni nel mondo classico

Da Platone ed Aristotele a Polibio e Cicerone: le riflessioni sul tema iniziarono già nel IV secolo a.C.

Paolo Marcacci

Paolo Marcacci

INSEGNANTE DI LETTERE, GIORNALISTA PUBBLICISTA, SPEAKER RADIOFONICO, OPINIONISTA TELEVISIVO

Ho trasformato in professione quelle che erano le mie passioni, sin dagli anni delle elementari. Dormivo con l'antologia sul comodino e le riviste sportive sotto il letto. L'una mi è servita per diventare una firma delle altre. Per questo, mi sembra di non aver lavorato un solo giorno in vita mia.

La Costituzione nell’Età Antica

Le prime riflessioni sulla Costituzione – all’epoca definita politèia – iniziarono nel IV secolo a.C., in un periodo di profonda crisi politica del mondo classico greco. Erano gli anni in cui si iniziava ad assistere alla decadenza del modello della polis, a causa di problematiche – ancora estremamente attuali – come il sorgere di conflitti sociali e l’economicizzazione dei rapporti umani (cioè, il predominare dell’interesse personale), che spinsero i filosofi greci a rilanciare quell’ideale collettivo che permettesse di superare tali spaccature interne ormai radicalizzate (stàsis), idealizzando di contro l’eunomìa (vale a dire, il buon ordine sociale). Nella ricerca degli antichi si tendeva ad una forma di governo ideale che esprimesse unità ed equilibrio tra società e potere e, in tal senso, un modello vincente apparve per molto tempo la democrazia ateniese, che assegnava un forte potere all’assemblea e si affidava all’estrazione a sorte delle cariche pubbliche, all’alternanza al governo e all’eguaglianza (democrazia-isonomia).

La Costituzione secondo Platone

Il filosofo, scrittore e politico greco Platone, nato ad Atene tra il 428 e il 427 a.C., profondamente disilluso dalla società del suo tempo, condannò duramente ogni forma democrazia priva di Costituzione, in quanto non dotata di una stabile forma dell’unione. Secondo Platone la democrazia dell’epoca altro non era che una condizione provvisoria, instabile, propedeutica all’avvento di una nuova tirannia. Fu proprio questo spiccato timore nei confronti del conflitto sociale e del potere assoluto che gli fece preferire la permanenza della legge rispetto alla transitorietà della politica. Ad ogni modo, esaltò la “scienza regia”, poiché la rigidità della legge non era in grado, da sola, di fronteggiare la varietà delle mutevoli circostanze che incombono nel corso della vita. Quando non vi era la possibilità di instaurare un governo illuminato, tuttavia, per il filosofo greco tanto valeva rimanere legati alle leggi che, quantomeno, esprimono una Costituzione stabile e imparziale di fronte agli ondeggiamenti della politica. Interrogandosi sull’origine della Costituzione, Platone giunse alla conclusione che, quando essa ha avuto origine dalla violenza, è destinata a decadere molto presto. Al contrario, soltanto la Costituzione degli antenati, che ha avuto modo di maturare durante un lungo periodo storico ed appare come il prodotto del progressivo comporsi di una pluralità di forze ed esigenze, potrà sopravvivere a lungo.

La Costituzione secondo Aristotele

Aristotele, filosofo greco nato a Stagira tra il 384 e il 383 a.C., riprese le idee di Platone, sottolineando tuttavia la necessità di estirpare il male primo della società: l’economicizzazione della vita pubblica. Tutte le forme di governo – dalla democrazia alla monarchia, passando per l’aristocrazia – nascono giuste e sono da ritenere accettabili, in quanto è soltanto la loro degenerazione, che può sfociare, rispettivamente, in anarchia del popolo, tirannide ed oligarchia, a distruggere il tessuto sociale. Pertanto, secondo Aristotele, il primo valore in qualsiasi realtà politica deve essere la virtù civica, intesa come coesione sociale ed interesse pubblico, oltre che come valore morale e schema partecipativo. In altre parole, ciò che il filosofo auspica è una Costituzione ‘media’ in cui tutti si riconoscono e che accettano, moderando di fatto le proprie pretese: ciò la rende una ‘politìa’, ossia la Costituzione ideale. Per far sì che ciò accada realmente, occorre che nella popolazione sia presente un corposo ceto medio, con il compito sociale di mitigare le fazioni ed i dissidi tra i cittadini, evitando invidie da parte delle classi meno facoltose e, al tempo stesso, le prepotenze di quelle più abbienti.

La Costituzione secondo Polibio

Polibio, storico greco nato a Megalopoli intorno al 206 a.C., riprese tali temi nella sua raccolta di opere – pubblicata postuma – intitolata ‘Storie’. Alla ricerca della Costituzione migliore, elabora la cosiddetta ‘teoria delle Costituzioni’, all’interno della quale inserisce una novità rispetto agli illustri predecessori: “Ogni forma di governo semplice e fondata su un solo centro di potere è instabile“. Pertanto, secondo l’autore, la Costituzione dura a lungo soltanto nel caso in cui sia basata sulla contrapposizione dei poteri, per cui ciascuno risulta equilibrato e controbilanciato, esattamente come avveniva nella Repubblica romana, grazie alla contemporanea presenza di consoli, Senato, Assemblea, magistrature ed autorità religiose. Polibio teorizza così un meccanismo che non si fonda più sulle virtù dei cittadini e sui loro assetti socio-economici, bensì su precisi limiti e bilanciamenti ai poteri pubblici.

La Costituzione secondo Cicerone

Con Cicerone, avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano nato ad Arpino il 3 gennaio del 106 a.C., si ritorna, invece, ad invocare prepotentemente l’esercizio delle virtù civiche. Fortemente segnato dal decadimento della res publica, oltre che dallo scatenarsi della guerra civile fra nobiltà e plebe, per Cicerone lo Stato deve essere considerato come un patrimonio del popolo, inteso non come moltitudine, bensì come quella parte che si è riunita sulla base di un consenso di diritto e su una comunanza di interessi. L’ideale fondante, pertanto, non può che essere la coesione sociale, che ha tuttavia bisogno di una forma, chiama ‘constitutio’: essa deve essere sia mista che moderata, ma deve anche assicurare stabilità ed equilibrio (vale a dire, l’aequabilitas, intesa come la proiezione sul piano politico delle virtù di equità e moderazione). Quello di Cicerone è un progetto di conciliazione sociale e politica che richiama la parte migliore di tutte le classi sociali, coinvolgendo cioè gli uomini più illuminati.