Cesare Beccaria, vita e opere dell'esponente dell'Illuminismo
Giurista, filosofo, economista e letterato, è l'autore del trattato 'Dei delitti e delle pene', un'analisi contro le esecuzioni capitali e la tortura
Nonno materno di Alessandro Manzoni e prozio dello storico Napoleone Bertoglio Pisani, Cesare Beccaria è considerato uno dei padri fondatori della teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola liberale.
Chi era Cesare Beccaria
Nato a Milano – sotto la dominazione asburgica – il 15 marzo 1738 da Giovanni Saverio di Francesco e Maria Visconti di Saliceto, fu educato a Parma dai gesuiti e si laureò all’Università degli Studi di Pavia in Giurisprudenza il 13 settembre 1758. Due anni più tardi, nonostante l’avversione del padre per la donna, al punto che lo costrinse a rinunciare ai diritti di primogenitura (tranne che al titolo di marchese), sposò la nobildonna spagnola Teresa de Blasco, da cui ebbe quattro figli: Giulia, l’unica a raggiungere l’età adulta, Maria, Giovanni Annibale e Margherita.
Cacciato di casa dopo il matrimonio, si rifugiò dal conte Pietro Verri, che per un certo periodo lo sostenne anche economicamente. Il 14 marzo 1774, tuttavia, Teresa scomparve prematuramente a causa della sifilide o della tubercolosi e Cesare, dopo quaranta giorni di vedovanza, convolò a nozze con Anna dei Conti Barnaba Barbò il 4 giugno dello stesso anno: la coppia diede alla luce Giulio. Ad avvicinarlo all’Illuminismo furono le letture di “Lettere persiane” di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, che lo colpirono profondamente, tanto che – nel cenacolo di casa Verri – iniziò a frequentare la redazione del Caffè, il più celebre giornale politico-letterario del tempo e per il quale scrisse più volte alcuni articoli.
Le opere di Cesare Beccaria
La sua prima opera fu “Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano nel 1762”, pubblicata a Lucca nel luglio del medesimo anno: ciò perché, a causa delle critiche ai metodi monetari austriaci allora vigenti in essa contenuti, la stampa venne ostacolata dal sovrintendente alla censura dello Stato di Milano. Mal tradotto, il suo ragionamento riguardo la circolazione delle monete d’oro e d’argento è tuttora in gran parte sconosciuto. Ad ogni modo, elencò tre teoremi – (i) una egual quantità di metallo deve corrispondere ad un egual numero di lire in ogni moneta; (ii) come il totale di un metallo circolante è al totale dell’altro, così una data parte di un metallo deve essere ad una egual parte dell’altro metallo in ogni moneta; (iii) nello stabilire il valor delle monete non si deve considerare che la pura quantità di metallo fino, nessun conto facendo né della lega, né delle spese del montaggio, né della maggiore raffinazione di alcune monete – e nei corollari affermò che, man mano che una nazione si allontanava da questi principi, generava disordine e caos, provocando la diminuzione del denaro e l’aumento dei debiti. L’unica soluzione sarebbe stata quella di accrescere la massa monetaria, necessaria per sviluppare l’industria e combattere povertà e miseria. Il suo capolavoro, però, vide la luce due anni più tardi: fu nel 1764, infatti, che diede alle stampe “Dei delitti e delle pene”, un breve trattato – inizialmente pubblicato anonimo – contro le esecuzioni capitali e la tortura, che ebbe un successo strepitoso in tutta Europa e, in particolare, in Francia. A causa delle numerose polemiche provocate, l’opera – confutata l’anno seguente da Ferdinando Facchinei con il testo “Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene” – fu inserita nel 1766 nell’indice dei libri proibiti. Nel 1770, poi, scrisse “Ricerche intorno alla natura dello stile” e, nel 1804, dieci anni dopo la sua morte, uscì postumo “Elementi di economia pubblica”.
Cesare Beccaria, gli ultimi anni
Viaggiò a Parigi, dove fu accolto nel circolo del barone d’Holbach, quindi in Inghilterra, ma la sua gelosia per la moglie lontana, il suo carattere cupo, riservato, debole e scostante, uniti a dei tratti paranoici, ad una diffidenza verso la vita sociale e ai frequenti sbalzi d’umore, lo indussero a tornare – ogni qualvolta gli fosse stato possibile – a Milano. Ottenne poi la cattedra di Scienze Camerali ed entrò nell’amministrazione austriaca col ruolo di membro del Supremo Consiglio dell’Economia, ricevendo le critiche dei suoi amici (su tutti Verri), ma ciò che più fece discutere sul suo conto fu il rapporto conflittuale con la figlia Giulia, futura genitrice di Alessandro Manzoni, messa in collegio – e ivi dimenticata per sei lunghissimi anni – alla morte della madre ed esclusa dalla propria eredità a causa dei debiti accumulati: ciò gli valse la fama di ‘irriducibile avaro’. Giulia, ad ogni modo, uscì dal collegio nel 1780 e iniziò ben presto a frequentare i circoli illuministi e libertini. Due anni più tardi Beccaria la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, di ben due decenni più anziano: Alessandro nacque nel 1785, ma ci sono tuttora dubbi circa la paternità, da molti attribuita a Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e amante della donna, che lascerà il marito nel 1792 per andare a vivere a Parigi con il conte Carlo Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente col padre e, per qualche tempo, anche con il figlio. Cesare Beccaria, invece, si spense a Milano il 28 novembre 1794 a causa di un ictus, all’età di 56 anni, e venne sepolto nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, anziché nella tomba di famiglia. Pietro Verri denunciò l’atteggiamento della popolazione meneghina, rea di non aver onorato abbastanza il giurista, né da vivo né da morto, nonostante la tanta gloria portata alla città.