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Guido Cavalcanti, poetica e sonetti

Importante uomo politico fiorentino e grande amico di Dante, è stato il capostipite dello stilnovismo toscano, discostandosene però nella poetica dell’amore e della figura femminile

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Membro di un casato dell’antica nobiltà fiorentina di parte guelfa, sposato a una Ghibellina, e poi a capo dei guelfi bianchi, Guido Cavalcanti ebbe una vita politica intensa e di rilievo nella Firenze della seconda metà del Milleduecento, ma sarà per sempre ricordato per la sua attività poetica e per il suo ruolo di capostipite dello Stilnovo toscano.

Di lui non restano complessivamente che 52 componimenti, tra sonetti e ballate, infinitesimale porzione della sua produttiva attività, che attirò le simpatie di Giovanni Boccaccio, di Dante Alighieri, con il quale strinse una sincera amicizia, dopo averne condiviso l’impegno e la fazione politica, e di Brunetto Latini e Dino Compagni, che insieme a lui fecero parte del Consiglio Generale del comune fiorentino.

Stilnovismo

Attribuito al bolognese Guido Guinizzelli, è però in Toscana che lo Stilnovo tocca le sue vette più alte, con lo stesso Cavalcanti, Dante e Lapo Gianni punte di diamante della corrente. Nato nel periodo di massima apertura del Medioevo, in concomitanza con il fiorire della civiltà comunale e della nascita delle università, e più in generale con un periodo di profondo rinnovamento dell’intera società sotto il profilo economico, sociale e culturale, lo stilnovismo si caratterizza come un movimento letterario, i cui seguaci si dedicano alla rielaborazione dei temi classici del passato attraverso il filtro della filosofia aristotelica. Si passa così dalla figura mistica della donna-angelo, all’amore come sentimento capace di travolgere la razionalità.

Poetica di Cavalcanti

La particolarità di Cavalcanti risiede però proprio nel suo distaccarsi in parte dagli impianti filosofici di tipo aristotelico, che vengono amalgamati al suo averroismo, una corrente che aveva tentato di unificare le tesi aristoteliche e la dottrina islamica tramite un approccio guidato dall’ottica cristiana.

La poetica d’amore di Cavalcanti, dunque è innanzitutto pessimistica, perché l’amore è percepito come una forza ostile. È l’angoscia che colpisce l’innamorato, e il suo conseguente annichilimento, il sentimento posto in evidenza dalla poesia cavalcantiana, nella quale l’amore diventa un “accidente”, nella sua accezione aristotelica di un qualcosa che fa parte di un oggetto senza però costituirne l’essenza, che, determinato da influenze astrali, va a sommarsi alla rappresentazione interiore che l’uomo si dà della bellezza esteriore dell’amata. La sua immagine resta impressa nell’intelletto possibile, luogo della memoria, impedendo di contemplare la verità fuori dalle passioni. L’amore allora per Cavalcanti, finisce per provocare turbamenti interiori che vanno ad oscurare la ragione, diventando così un ostacolo alla conoscenza, rendendo impossibile dedicarsi alle proprie attività.

D’altro canto, però, la poesia di Cavalcanti presenta un altro tratto, più classicamente stilnovista, che si contrappone alla cupa visione pessimistica del sentimento amoroso, trovandone nella figura femminile il lato positivo ed esplicitandosi nel paragone tra l’amata e il mondo della Natura, piuttosto che nell’apparizione della figura femminile nell’anima del poeta o nel non poter lodarne a sufficienza la bellezza. Anche in questo caso però, il poeta si discosta ancora dai suoi contemporanei, fermandosi un attimo prima di sfociare nella spiritualizzazione della donna-angelo, per restare comunque ancorato alla convinzione che “Amore allontana sempre l’uomo dal perfezionamento di sé“.

Sonetti

Nei sonetti di Cavalcanti, la filosofia incontra la tradizione lirica, per trovare soluzioni inedite tanto a livello stilistico che concettuale. Nell’ “Avete ‘n vo’ li fior e la verdura”, ad esempio, l’immagine della bellezza è tutta apparenza, perché è dentro di sé che la donna-angelo porta i fiori . L’impossibilità di riuscire a descrivere la perfezione della donna-angelo emerge nel sonetto “Chi è questa che vien, ch’ogn’om la mira”, in cui il poeta deve ricorrere ai tradizionali paragoni con la natura e le sue bellezze.

Merita invece un discorso a parte la canzone “Donna me prega”, che va ad inserirsi in una tradizione lirica in cui i diversi autori cercavano di dare una definizione dell’amore e dell’innamoramento e che Cavalcanti affronta seguendo un ragionamento speculativo, affrontando le diverse questioni dell’amore, presentato come un qualcosa di puramente fisico, un “accidente”, che colpisce l’uomo, entrando in rapporto talmente conflittuale con l’anima, da provocarne la fuga alla sua sola presenza.

Per Cavalcanti, insomma, non è possibile prevedere un esito diverso dalla morte e dalla sofferenza dell’uomo, giacché l’amore agisce in modo tale da impedire nel malcapitato ogni tipo di pensiero razionale, compromettendo inevitabilmente ogni possibilità di comprensione di ciò che gli sta capitando e di reagire o commisurare in qualche modo la forza distruttiva del sentimento.

Un crudele destino, suggerito da una delle parole ricorrenti della poesia cavalcantiana, quel “convien”, ovvero “è necessario, si deve”, che denuncia appunto l’impossibilità che le cose abbiano esito diverso da quello presentato.