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"Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”

Ispirato alla popolazione nomade dei Kirghisi e manifesto del pessimismo cosmico, rappresenta uno dei componimenti filosofici più complessi della produzione leopardiana

Silvia Pino

Silvia Pino

GIORNALISTA PUBBLICISTA

Ho iniziato con le lingue straniere, ho continuato con la traduzione e poi con l’editoria. Sono stata catturata dalla critica del testo perché stregata dalle parole, dalla comunicazione per pura casualità. Leggo, indago e amo i giochi di parole. Poiché non era abbastanza ho iniziato a scrivere e non mi sono più fermata.

Il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” è una delle poesie più famose di Giacomo Leopardi. Il canto, composto a Recanati tra il 23 ottobre 1829 e l’8 aprile 1830, appartiene al cosiddetto ciclo pisano-recanatese e fu pubblicato nel 1831, nell’edizione fiorentina dei Canti. L’ispirazione per questo componimento viene tratta da Leopardi dopo la lettura di una cronaca di viaggio apparsa nel 1826 sul Journal des Savants, intitolata “Voyage d’Orenbourg à Boukhara fait en 1820”, nella quale si raccontava della missione politica e culturale condotta nelle steppe dell’Asia dal barone russo Meyendorff. Un passo in particolare colpisce il poeta, che ne prende nota nello Zibaldone, quello in cui erano descritte le abitudini dei pastori nomadi Kirghisi, che erano soliti intonare canti alla Luna durante le ore del riposo notturno: “[…] Molti di questi trascorrono la notte seduti su un masso a guardare la luna, e a improvvisare parole assai tristi su delle arie le quali non lo sono di meno”.

“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” è uno dei componimenti filosofici maggiormente complessi di Leopardi, nonostante il poeta abbia scelto di affidare a un protagonista umile come un pastore le sue riflessioni, che si dipanano attraverso sei ampie strofe di endecasillabi e settenari che hanno il ritmo e le cadenze di un vero canto orale, come quelli di cui Leopardi aveva letto sui Kirghisi.

La luna, come già in altri canti precedenti, è la privilegiata interlocutrice del poeta, ma nel caso del pastore, il dialogo con una realtà femminile lontana e impossibile anziché svilupparsi in direzione sentimentale, diventa l’ossatura che sostiene un ragionamento filosofico sul senso dell’esistenza degli esseri viventi, sviluppato attraverso domande universali alle quali l’uomo, a causa della sua natura, non riuscirà mai a rispondere. Il canto ribadisce con ciò la teoria del pessimismo cosmico: la vita è una corsa senza senso, verso il nulla della morte.

Riassunto dell’opera

La poesia è divisa in sei strofe, ognuna con una storia a sé. Gli interlocutori silenziosi del poeta sono la luna e il suo gregge. Il componimento si apre con il pastore kirghiso che si rivolge confidenzialmente alla luna, rivelandole i propri dubbi sul senso della vita attraverso una serie di domande retoriche. Contemplando il moto eterno lunare, il pastore lo paragona alla sua vita, così come l’astro percorre il firmamento celeste ogni sera, così lui conduce le sue greggi per gli stessi pascoli ogni giorno, quasi meccanicamente, senza nutrire alcuna speranza per il domani. Così si interroga e interroga la luna sul senso e sul fine della vita.

Nella seconda strofa lo scenario e i protagonisti cambiano repentinamente, irrompe la figura di un anziano, che il pastore nel suo canto utilizza per spiegare alla luna la condizione della vita umana. Il canuto vecchietto, malvestito e scalzo, pur in precarie condizioni, corre e si affanna portando un grande peso sulle spalle, varcando torrenti e stagni, cadendo e rialzandosi, proseguendo senza sosta sebbene ferito e sanguinante, per arrivare sull’orlo di quell’orrido abisso orrendo che è la morte, pronto ad inghiottirlo senza lasciarne memoria alcuna.

Nella terza strofa il poeta riavvolge il nastro e dal momento della morte torna a quello, anch’esso tragico della nascita. Se l’incedere della vita infatti, prosegue il pastore, non è che un affannoso viaggio verso la morte, anche il venire al mondo è una metafora delle sofferenze che la vita riserverà al nascituro. Il parto viene descritto come un evento doloroso e rischioso dal punto di vista fisico, così l’uomo come prime emozioni prova pena e tormento, già foriere delle sventure che dovrà affrontare. I genitori del bambino lo consolano e non smetteranno di prendersi cura di lui durante la crescita, facendogli coraggio per andare avanti. Premure anche gradite, ma talmente paradossali agli occhi del poeta, che gli risulta incomprensibile il motivo per il quale ci si ostini a mettere al mondo esseri umani per poi consolarli del loro sventurato destino. Se nella prima strofa, il pastore si mette sullo stesso piano della Luna, ponendole le stesse domande che egli stesso si pone, in questa riflessione sulla nascita si rende conto della distanza dal corpo celeste, che difficilmente sarà in grado di comprenderlo.

Decide così di riprendere il suo colloquio con l’eterna viandante, incalzandola nell’incipit della quarta strofa con nuovi quesiti esistenziali sul significato ultimo della vita terrena, sul perché gli uomini soffrano e si affannino, quando il loro è un lento e inesorabile incedere verso la morte. La luna resta indifferente, ma secondo il pastore in realtà è a conoscenza di tutto quel che accade sulla terra e anche il cielo, possedendo quelle conoscenze che all’uomo sono precluse. E così, come egli non conosce il motivo del moto perpetuo degli astri, non sa neanche se la sua esistenza sia utile o gradevole per qualcuno, la sola cosa di cui è certo è che per lui la vita è solo sofferenza.

Con un nuovo ribaltamento della prospettiva, nella quinta strofa il pastore dal rivolgersi alla luna, sposta il suo sguardo sul gregge e parla alle sue pecore, che invidia dal profondo del cuore per la loro assoluta mancanza di consapevolezza della morte e della loro totale imperturbabilità rispetto ai misteri del cosmo, mentre lui non riesce a trovare la stessa serenità senza annoiarsi, continuamente spronato dalla mente a riflettere e condannato a provare quella sensazione di angosciante insoddisfazione propria dell’essere umano.

A conclusione del canto con la sesta e ultima strofa, il pastore sembra astrarsi dalla scena, facendo un passo indietro per rifugiarsi nell’immaginazione e riferendosi sia alla luna che al gregge ipotizza che forse se potesse volare per contare le stelle una ad una, o farsi tuono per spostarsi di vetta in vetta, potrebbe finalmente essere felice. Un lampo di luce, che subito si perde nel buio di quella che più che una riflessione, suona come una sentenza: inutile ignorare la realtà, sperando di poter sottrarsi al destino già sancito dal giorno della nascita, funesto per chi nasce.