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Il mito di Clizia

Figlia di Oceano e Teti, venne ripudiata dall'amato Apollo, che la trasformò in un girasole

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

Chi era Clizia

Secondo la mitologia greca, Clizia fu un’Oceanina, cioè una delle tremila figlie del titano Oceano e della titanide Teti, nonché sorelle degli altrettanti Potamoi. Si innamorò perdutamente di Apollo ma, quando si accorse che quest’ultimo, dopo averla ‘illusa’, iniziò a trascurarla per recarsi da una mortale, Leucòtoe, figlia del re orientale Orcamo: egli, per ottenere il cuore della ragazza, si trasformò in sua madre, entrò nella stanza dove stava tessendo con le ancelle, riuscì a rimanere solo con lei e, quindi, la sedusse. Clizia, gelosa della ‘rivale’, decise di rivelare al padre l’unione della sua fanciulla con il dio del Sole, con l’anziano genitore che, furibondo, decise di scavare una buca profonda dove seppellirla viva. A questo punto, però, perduta la sua amata, Apollo, dopo aver tentato invano più volte di resuscitarla – ma il Destino si oppose – e aver cosparso il luogo della sepoltura di un nettare profumato, dalla cui terra inumidita nacque la pianta dell’incenso, si vendicò scegliendo di non incontrare mai più Clizia. La giovane, in preda alla disperazione per la brusca rottura con l’amato, così come ai sensi di colpa per la meschina azione commessa nei confronti di Leucòtoe, cominciò a deperire, rifiutando di nutrirsi e bevendo solamente le sue lacrime (o la rugiada, secondo altre versioni). La ninfa trascorse, così, il resto dei suoi giorni seduta a terra ad osservare Apollo che, mentre conduceva il carro del Sole in cielo, non le rivolgeva mai neppure uno sguardo fugace: “Mai più il Sole, signore della luce, volle avvicinarsi a Clizia e godersi con lei piaceri d’amore. Da allora, travolta dalla follia della sua passione, la ninfa, incapace di arrendersi, si strugge e notte e giorno sotto il cielo giace sulla nuda terra a capo nudo coi capelli scomposti. Per nove giorni, senza toccar acqua o cibo, interrompe il digiuno solo con rugiada e lacrime; non si muove da terra: non faceva che fissare nel suo corso il volto del nume, seguendolo con gli occhi“, scrisse Ovidio nel IV libro de ‘Le Metamorfosi’. Tale situazione si protrasse per alcuni giorni fin quando, consumata dall’amore, impietosì il dio, che la trasformò in un fiore, precisamente un Eliotropio, presente ai tempi dei Greci antichi, che cambia inclinazione a seconda dello spostamento dell’astro nel cielo e perciò detto oggi in italiano ‘girasole’, al pari di ‘tournesol’ in francese, ‘sonnenblume’ in tedesco e ‘sunflower’ in inglese (del resto, lo stesso nome ‘Clizia’, in greco arcaico altro non significava che “colei che si inclina, si muta e ha la dedizione verso qualcosa”). Quindi Clizia, anche se aveva perso le sue sembianze umane, continuò ad amare Apollo come aveva fatto fino a quel momento, anzi forse di più: “Si dice che il suo corpo aderisse al suolo e che un livido pallore trasformasse parte del suo incarnato in quello esangue dell’erba; un’altra parte è rossa e un fiore simile alla viola le ricopre il volto. Benché trattenuta dalla radice, essa si volge sempre verso il suo Sole, e anche così trasformata gli serba amore“.

Il mito di Clizia nella letteratura

Oltre che ne ‘Le Metamorfosi’ di Ovidio, il mito di Clizia è contenuto anche nelle ‘Fabulae’ (Miti o Racconti), una raccolta di brevi storie scritte nel II secolo dal cosiddetto Igino mitografo, sebbene per altri l’autore sarebbe il più antico erudito Gaio Giulio Igino, databile all’età augustea. Ad ogni modo, la sua immagine di girasole inteso come emblema di un amore tanto fedele quanto felice arrivò a Eugenio Montale, che con lo pseudonimo di Clizia chiamò una delle donne protagoniste della sua produzione poetica e della sua vita, la giovane ebrea americana Irma Brandeis, studiosa di Dante Alighieri che, venuta in Italia nel 1933 per approfondire i suoi studi, trovandosi a Firenze volle conoscere il poeta, allora direttore del Gabinetto Vieusseux: tra i due fu un colpo di fulmine ed ebbe così inizio una delle storie d’amore più celebri – e tormentate – del Novecento italiano. Montale, infatti, era già sposato con Drusilla Tanzi, che lo minacciò più volte di suicidarsi se lui l’avesse lasciata, mentre Irma, per sfuggire alle persecuzioni razziali, fu costretta a far ritorno negli Stati Uniti. La relazione tra i due continuò per alcuni anni tramite lo scambio epistolare e i molti propositi – mai realizzati – del poeta di lasciare la propria moglie e trasferirsi Oltreoceano: ciò portò, inevitabilmente, ad un affievolimento del rapporto, fino alla sua totale interruzione nel 1938.