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Il mito di Prometeo

È colui che inganna per due volte Zeus, ruba ad Atena e dona il fuoco agli uomini, prima di essere condannato a una pena senza fine per aver sfidato gli dei

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Quella di Prometeo è una delle figure più rilevanti e complesse dell’intera cultura greca. Cantato per primo da Esiodo, fu ripreso da Eschilo, poi da Euripide, fino a Platone. Il mito del titano che plasma gli uomini, donando loro l’intelligenza, la tecnica e il fuoco, andando incontro a una terribile punizione. Immortale demiurgo, Prometeo ha suscitato infinite riletture, la più celebre delle quali è quella di Mary Shelley e del suo “Frankenstein o il moderno Prometeo".

La vita e la morte mi sembravano limiti ideali che io, per primo, avrei oltrepassato, e avrei versato un torrente di luce nel nostro buio mondo. Una nuova specie mi avrebbe benedetto come suo creatore e sorgente; molte creature felici ed eccellenti avrebbero dovuto a me la loro esistenza".

Saggio o avventato, sovversivo o benefattore, Prometeo per Boccaccio è colui che ha affrancato l’uomo dalla condizione primitiva, mentre per Rousseau è colui che ha corrotto per sempre il felice stato naturale donando all’uomo, insieme al fuoco, anche la tecnica, fornendogli gli strumenti per farsi la guerra e strumentalizzare il progresso per i propri fini. Ghoete e Leopardi, pur esaltandone l’audacia, ne sottolineeranno anche l’imperfezione dell’opera, avendo comunque forgiato una stirpe mortale e imperfetta, destinata a piangere e soffrire come lui. Allo stesso modo, però, Lord Byron e Percy Bysse Shelley vi intravedono il simbolo della rivoluzione al tiranno, in nome della libertà. Albert Camus lo ha definito “il più grande mito dell’intelletto in rivolta" e i filosofi Hans Jonas e Anders Ghunter lo invocano mentre cercano una nuova etica, che possa porre un freno alla tecnologia.

Il mito

Prometeo in greco significa “colui che pensa prima" ed infatti il protagonista del mito è dotato dell’antiveggenza, la capacità di anticipare il futuro, una dote che da giovane metterà a frutto, ingraziandosi gli dei, e che poi ignorerà di avere, andando consapevolmente incontro al castigo divino.

Figlio di Giapeto e Climene, appartiene alla stirpe preolimpica dei Titani e proprio grazie alla sua lungimiranza si tiene in disparte, assieme al fratello Epimeteo, “colui che pensa dopo", un nomen omen profetico, dalla loro battaglia contro Zeus, anzi schierandosi ad esito ormai certo dalla parte degli olimpici, conquistandosene l’amicizia e la stima. Tanto che, dopo aver invitato Prometeo a presenziare al “parto" di Atena, nata dalla sua testa, sarà lo stesso Zeus a chiedere ai fratelli di generare una nuova specie, gli esseri umani, forgiati a partire dal fango “impastando l’acqua piovana" e animati con il fuoco.

L’errore di Epimeteo

Osservando la terra dall’alto del monte Olimpo, però, Zeus resta deluso dagli uomini, pavidi e rintanati nelle caverne, perché privi di strumenti per sopravvivere, se non di stenti. Così, mette a disposizione delle qualità da distribuire fra tutti gli esseri della terra. Epimeteo, se ne assume l’incarico e fornisce zanne ed artigli per cacciare, ali per volare, fiuto e udito per sfuggire ai pericoli, velocità, astuzia e forza, fino a quando, “colui che pensa dopo", realizza di essersi completamente dimenticato degli umani.

Accortosi dell’errore del fratello, Prometeo interviene prontamente, sottraendo all’amica dea Atena, che aveva visto nascere e dalla quale aveva appreso l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione, uno scrigno in cui erano custodite l’intelligenza e la memoria, che dona agli uomini.

“[…] quando il sole era tramontato, se la luna non appariva a rischiarare le lunghe notti, una tenebra impenetrabile inghiottiva l’universo, e gli uomini erano simili a miseri ciechi, tremanti, indifesi, in un mondo senza luce, colmo di ruggiti paurosi e lampeggiante degli occhi fosforescenti delle belve. Prometeo, il buon gigante dagli occhi splendenti, non poté sopportare a lungo lo spettacolo di quella umanità dispersa e miserabile […]".

Il banchetto di Mecone

Zeus non vede di buon occhio l’amore di Prometeo per la razza umana, della quale ha già deciso di sbarazzarsi, perché vi intravede la possibilità che, grazie a tutte le conoscenze assimilate dal Titano, diventi un problema di difficile gestione.

Nonostante ciò, gli uomini vivono a contatto con gli dei, trascorrendo anche momenti di convivialità, ma proprio in una di queste occasioni, Prometeo tira un altro brutto scherzo a Zeus. Incaricato durante un banchetto a Mecone di spartire un enorme bue tra gli abitanti dell’Olimpo e gli esseri umani, riserva le parti migliori a questi ultimi, coprendole sotto la poco appetibile pelle del ventre dell’animale, e riserva le ossa alle divinità, ma rivestendole con un lucido strato di grasso, quindi lascia a Zeus la scelta, che ovviamente ricade sulla parte più golosa alla vista, salvo infuriarsi una volta scoperto l’inganno.

Il furto del fuoco

Prometeo però non è ancora soddisfatto, i suoi amati umani continuano a vivere in condizioni impossibili e solamente il fuoco avrebbe potuto cambiare la loro sorte. Esso però apparteneva agli dei, che ne erano particolarmente gelosi e che infatti lo custodivano nelle viscere della Terra, all’interno dell’officina dove Vulcano, dio del fuoco, forgiava con l’aiuto dei Ciclopi, i fulmini di Zeus. Tutti motivi evidentemente non sufficienti a scoraggiare il Titano, che, narcotizzato Vulcano con del vino drogato con dei papaveri e incurante delle conseguenze, ruba qualche scintilla e fugge dai suoi amici uomini con il suo regalo più grande.

“Vi porto il fuoco!" gridò il gigante agli uomini che lo attendevano “Vi porto la vita, la civiltà, la gioia!"

La punizione

Alla vista del fuoco è un gran giubilo per gli esseri umani, che danzano e cantano attorno alle fiamme, attirando così l’attenzione di Zeus, che intuito il responsabile, decide di fargliela pagare. Convoca Vulcano, corresponsabile per essersi fatto ingannare, e gli ordina di eseguire la condanna. Così il dio del fuoco, sempre aiutato dai Ciclopi, incatena Prometeo sulla rupe più alta e maggiormente esposta alle intemperie e, mosso a pietà, invita il Titano a farsi coraggio, perché soffrirà in eterno, ma che può consolarsi pensando che, senza di lui, gli uomini sarebbero stati già sterminati. Quindi lo lascia solo con la sua pena, che non è ancora finita. Perché ogni giorno Aithon, una mostruosa aquila del Caucaso, planerà su di lui, squarciandogli il petto e divorandogli il fegato, che durante la notte ricresceva, per protrarre le sofferenze di Prometeo all’infinito.

“[…] Ogni mattina, un’aquila gigantesca calava dalle cime nevose, si accostava al corpo del gigante, gli squarciava con un colpo del becco ricurvo il torace e si cibava del suo fegato sanguinante. Quando tornava la notte, il fegato, miracolosamente, rinasceva e di nuovo, al sorgere del sole, l’aquila affamata si dissetava al suo sangue e divorava il fegato del martire gigante […]".

Solamente Ercole, dopo tantissimi anni, vedendo l’aquila straziare il corpo del povero Prometeo, interverrà con il consenso di Zeus, uccidendola e liberando il Titano dalle catene e accogliendolo finalmente tra gli immortali.