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Chi era e cosa ha scoperto Pasteur, scienziato francese

Universalmente considerato il 'padre' della microbiologia e della batteriologia, oltre che lo scopritore dei principi alla base dei vaccini, si occupò nel corso della sua vita anche di fisica e chimica, con risultati sorprendenti nello studio delle cause e della prevenzione delle malattie, creando di fatto le basi per l'igiene, la salute pubblica e le pratiche mediche moderne

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Dalla fermentazione di birra, vino ed aceto alla pastorizzazione, dalle malattie del baco da seta al colera dei polli e al carbonchio di bovini, ovini ed equini: è ai grandi problemi – nei campi dell’agricoltura, dell’industria agraria e dell’allevamento – affrontati dalla Francia a metà Ottocento che si devono le più grandi scoperte di Louis Pasteur.

Chi era Louis Pasteur

Nacque il 27 dicembre 1822 a Dole, nel Giura francese, da Jean-Joseph Pasteur, un conciatore disoccupato e veterano delle guerre napoleoniche, e Jeanne Etiennette Roqui. Crebbe – con una rigida educazione cattolica che porterà con sé per tutta la vita – tra Marnoz e Arbois ma, dopo aver appreso che nel collegio della città non era possibile studiare filosofia, decise di trasferirsi a Besançon, dove si diplomò nel 1840 in lettere e in scienze. Intelligente ed ambizioso, ma non molto incline al mondo accademico – anche per il tanto tempo dedicato ai suoi grandi hobby, la pesca e il disegno – ‘perse’ un anno prima di iscriversi all’École Normale Supérieure in quanto non soddisfatto del 14° posto ottenuto nel test d’ingresso (si piazzerà 3° al secondo tentativo). Sostenne, quindi, due tesi – in chimica e in fisica – sul dimorfismo di alcune sostanze, come lo zolfo, capaci di cristallizzare in due sistemi differenti, per ricoprire (brevemente) il ruolo di professore di fisica al liceo di Digione nel 1848 e – l’anno successivo – quello di chimica all’Università di Strasburgo. Qui, conobbe Marie Laurent, figlia del rettore dell’università, che sposò e dalla quale avrà cinque figli: solo due di loro, però, raggiungeranno l’età adulta. Grazie alle sue prime scoperte, come la fermentazione delle bevande alcoliche o l’annientamento dei batteri talvolta presenti in esse, venne nominato – l’8 dicembre 1862 – membro dell’Accademia delle scienze e presentato all’imperatore Napoleone III. Due anni dopo, inoltre, vinse il premio dell’Accademia francese delle scienze per la dimostrazione della verità della teoria della biogenesi, a discapito di quella della generazione spontanea. Seppur colpito da una serie di ictus, che lo porteranno poi alla morte – a Marnes-la-Coquette – il 28 settembre 1895, per oltre vent’anni proseguì i propri studi senza un attimo di tregua: analizzò le malattie dei bachi da seta (individuando l’origine della pebrina e ideando un metodo di prevenzione) e si dedicò allo studio del colera e del carbonchio negli animali da allevamento e del virus della rabbia nei cani e nell’uomo.

Pasteur, la fermentazione di vino, aceto e birra e la pastorizzazione

Mosso da patriottismo e desideroso di rendere quella francese la migliore al mondo, dedicò numerosi studi alla fermentazione della birra. Aveva notato che essa, a differenza del vino, che può invece essere fatto invecchiare molti anni, doveva essere consumata in tempi relativamente brevi, in quanto molto più soggetta a contrarre malattie. Meno acida ed alcolica, ma più zuccherata: Pasteur capì ben presto che la differenza di fondo tra le due bevande dipendesse dai metodi di conservazione. Il cosiddetto ‘mosto di birra’, infatti, ottenuto dopo l’infusione di malto e di luppolo, veniva raffreddato prima di essere distribuito in tini o in botti. Proprio in questo momento, alla temperatura di 20 gradi centigradi, iniziava la fermentazione: Pasteur, a tal proposito, dimostrò come piccoli funghi microscopici, trasportati con la polvere nell’aria, contaminassero le materie prime utilizzate per la fabbricazione della bevanda, iniziando a ‘servirsi’ del calore come metodo di preservazione. Nello specifico, ad una temperatura di 50-55°C e imbottigliata, la birra non solo non perdeva l’acido carbonico altrimenti suscettibile al calore, ma non arrestava neppure del tutto la fermentazione. Dal 1862 tale metodo ha il nome di ‘pastorizzazione’. I vini, invece, compreso l’aceto, erano soggetti a malattie provocate da piccoli vegetali microscopici, dai quali si sviluppavano i germi, a seconda di temperatura, variazioni atmosferiche e/o esposizione all’aria. Dopo numerosi esperimenti, quasi tutti fallimentari, tra il 1863 e il 1864 Pasteur capì che occorreva portare il vino a 50-60° in pochi secondi.

Pasteur e le malattie dei bachi da seta

Una misteriosa malattia aveva colpito i bachi da seta di tutta Europa, da Italia e Spagna a Turchia e Grecia, comprese le migliaia di isole del mar Egeo. Osservò, quindi, dei corpuscoli al microscopio, notando che la patologia si sviluppava soprattutto nelle farfalle e nelle crisalidi, molto più che nelle uova o nei bachi, che invece portavano il germe senza presentare dei corpuscoli distinti e visibili al microscopio, e ritenne pertanto fondamentale procurarsi una semente sana, ricorrendo a farfalle prive di corpuscoli. Per farlo, elevò la temperatura di qualche grado per affrettare l’uscita delle farfalle, in modo tale da poterle analizzare. In questo modo, nel 1870, Pasteur salvò la produzione europea di seta, che stava vivendo un vero e proprio tracollo, e con essa le finanze di numerose persone, che da anni intraprendevano onerosi viaggi fino in Giappone al solo scopo di procurarsi ceppi sani.

Pasteur, il colera dei polli e il carbonchio di bovini, ovini ed equini

Dopo aver notato come bastasse un numero esiguo di vibrioni di colera per uccidere piuttosto rapidamente i polli, Pasteur prese una coltura datata poche settimane e la iniettò in alcune galline. Notò che queste, pur presentando i sintomi della malattia, restavano in vita. Nelle successive ricerche dimostrò come l’attenuazione fosse dovuta al contatto con l’aria e, nel 1880, giunse alla conclusione che, se fossero state prese colture di virulenze attenuate come punto di partenza per le successive, anch’esse avrebbero riprodotto la virulenza attenuata: ciò rappresentava una speranza nell’ottenere un vaccino grazie all’utilizzo di colture artificiali. L’anno successivo, poi, si dedicò alle spore del carbonchio: queste, a differenza del colera, erano tuttavia totalmente immuni al contatto con l’aria, conservando la propria virulenza. Il 5 maggio 1881, così, nel primo esperimento pubblico sull’efficacia del vaccino, Pasteur iniettò cinque gocce della coltura chiamata ‘primo vaccino’ in 25 pecore, ripetendo l’inoculazione dodici giorni dopo, con un batterio sì attenuato, ma più virulento del precedente. Quindi, il 31 dello stesso mese, ripeté l’operazione con una formulazione ancor più aggressiva, stavolta su 50 esemplari: a sopravvivere furono soltanto i 25 utilizzati come ‘cavie’ sin dal principio.

Pasteur, la rabbia e la sieroterapia

Al momento in cui Pasteur iniziò i propri studi tutto ciò che si sapeva era semplicemente che la saliva degli animali infetti conteneva il virus rabbico, che il male si trasmetteva con i morsi e che l’incubazione variava da pochi giorni a molti mesi. Il microbiologo francese, però, scoprì che la malattia non risiedeva soltanto nel secreto e lo fece inoculando materia cerebrale di esemplari malati sotto la cute di altri invece sani, che presentarono ben presto i sintomi. Anzi, questa materia virulenta agiva persino meglio della saliva. Pertanto, giunto alla conclusione che l’ambiente favorevole allo sviluppo del virus fosse il cervello, decise di creare il vaccino utilizzando un frammento di midollo spinale di un coniglio morto di rabbia, sospeso in un flacone sterilizzato, la cui aria era mantenuta secca dall’idrossido di potassio. Con il passare dei giorni, il midollo perse via via la sua aggressività e il virus, una volta inattivo, venne prima tritato in acqua pura e poi inoculato sotto la pelle dei cani. Questi esemplari, al contrario dei non vaccinati, sopravvissero. La prova finale della sua efficacia avvenne il 6 luglio 1885, quando gli venne portato un bambino alsaziano di 9 anni con 14 ferite provocate da un cane rabbioso. Con 13 iniezioni in 10 giorni, l’ultima delle quali in grado di uccidere un animale in una settimana, Pasteur riuscì ad evitare al bambino una morte certa. L’anno seguente, poi, affermò con fierezza all’Accademia delle scienze che, su 350 persone sottoposte al trattamento preventivo, si era registrato un solo decesso.