Alienazione e lavoro in Marx
Esposto nei 'Manoscritti economico-filosofici del 1844', tale concetto supera la filosofia post-hegeliana e permette di smascherare le incoerenze dell'ideologia borghese
I ‘Manoscritti economico-filosofici del 1844’
I ‘Manoscritti economico-filosofici del 1844’, detti anche ‘Manoscritti di Parigi’, furono scritti da Karl Marx tra marzo e settembre di quell’anno, ma pubblicati postumi soltanto nel 1932. Al suo interno appare evidente la consapevolezza del suo distacco da Hegel, approcciandosi per la prima volta all’economia classica di Smith e Ricardo e, dopo aver rivolto alcune critiche ai loro presupposti, dando forma a un lavoro costruttivo nei campi di filosofia, storia, politica ed economia. L’opera si articola in tre manoscritti: il primo riguarda l’economia classica borghese e i suoi temi principali, il secondo la proprietà privata e il comunismo, che viene per la prima volta indicato come risoluzione dialettica dei processi economico-sociali del mondo moderno e il terzo tratta la divisione del lavoro e la filosofia di Hegel in generale. In particolare, sono il concetto di “alienazione” e la sua applicazione al mondo del lavoro che permettono a Marx di innovare profondamente la filosofia post-hegeliana, contrapponendosi all’impostazione del predecessore e smascherando le incoerenze dell’ideologia borghese. L’analisi parte, nel lessico di Hegel, dal fondamentale passaggio dialettico per cui lo Spirito si oggettivizza nella realtà e attua un vero e proprio capovolgimento del processo tesi-antitesi-sintesi della Filosofia dello Spirito: al centro viene posta una figura completamente nuova, sia dal punto di vista sociale che da quello economico-produttivo, che coincide con l’operaio e Marx afferma che l’alienazione non è soltanto un concetto filosofico, ma anche “un fatto economico, attuale”, da cui dipende concretamente la sorte vitale dei lavoratori, nonché le loro stesse possibilità di esistenza e sopravvivenza. Ciò comporta un totale cambiamento dei rapporti tra lavoratori, merce e “messa in valore” del mondo delle cose: la crescita di quest’ultima, infatti, è direttamente collegata alla svalutazione del mondo degli uomini, in quanto “il lavoro non produce soltanto merci, ma anche se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere“, come affermato dallo stesso Marx, che si domanda ironicamente: “Come potrebbe l’operaio rendersi estraneo nel prodotto della sua attività, se egli non si estraniasse da se stesso nell’atto della produzione?“.
Il lavoratore nel sistema capitalistico
Questa alienazione, che può essere definita anche oggettivizzazione nei termini dell’economia politica classica, da cui Marx, comunque, prende le distanze in modo piuttosto polemico, altro non è che una privazione dell’operaio, una realtà che sottintende una forma estremamente profonda e subdola di schiavitù, da intendere “sotto il dominio del suo prodotto, del capitale”. Marx, infatti, spiega che “abbiamo finora considerato l’alienazione, l’espropriazione dell’operaio solo secondo un lato: quello del suo rapporto con i prodotti del suo lavoro. Ma l’alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì anche nell’atto della sua produzione, dentro la stessa attività producente“. A questo punto è lo stesso filosofo, economista, politologo, storico, giornalista e politico tedesco a porsi una fondamentale domanda, “In che cosa consiste ora l’espropriazione del lavoro?“, cui risponde: “Primariamente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito“. La spersonalizzazione alienante del lavoro capitalista, che richiama quella religiosa di Feuerbach (“Più l’uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto“), così come l’appropriazione del lavoro altrui da parte del capitalista, si saldano con la definizione di proprietà privata, tema focale delle analisi critiche de ‘Il Capitale’, ma che trova una prima definizione teoreticamente fondata del comunismo già nei ‘Manoscritti economico-filosofici del 1844’: “La proprietà privata non è dunque il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato, del rapporto estrinseco dell’operaio alla natura e a se stesso. La proprietà privata risulta così dall’analisi del concetto del lavoro espropriato, cioè dell’uomo espropriato, del lavoro alienato, della vita alienata, dell’uomo alienato”. E ancora: “Solo all’ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata questa mostra di nuovo in risalto il suo segreto: cioè che, da una parte, essa è il risultato del lavoro espropriato, e secondariamente ch’essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di questa espropriazione“.