Il Capitale di Marx: teoria del plusvalore
Testo teorico fondamentale nella filosofia materialista, contiene un'analisi sul capitalismo al fine di confutare le leggi economiche vigenti nelle società moderne
La critica all’economia politica
‘Il Capitale’ è il testo teorico fondamentale nella filosofia materialista scritto da Karl Marx e pubblicato in tre volumi (il primo il 14 settembre 1867, gli altri due postumi nel 1885 e 1894). Il sottotitolo dell’opera, ‘Critica dell’economia politica’, è emblematico circa la contrapposizione dell’autore al sistema liberista, all’epoca dominante. Marx, seppur formatosi nella scuola degli economisti classici, se ne allontanò con il passare degli anni, arrivando a ‘smontare’ la celebre teoria del valore-lavoro. In realtà, il filosofo, economista, politologo, storico, giornalista e politico tedesco, già tra l’agosto 1857 e il giugno 1858 si era impegnato nella stesura di un saggio economico, concernente l’analisi del capitalismo e della teoria quantitativa della moneta, dal titolo ‘Per la critica dell’economia politica’, i cui concetti principali si ritroveranno, con un’argomentazione molto più approfondita, proprio nel terzo volume de ‘Il Capitale’. Alla base c’è la tesi del materialismo storico, che si propone di spiegare, attraverso la Dialettica, considerata come metodo, le condizioni e le caratteristiche della vita materiale attraverso le contraddizioni a cui danno luogo: queste incidono inevitabilmente sugli altri aspetti della vita sociale, in quanto esiste una struttura, che è costituita dall’economia, che determina varie sovrastrutture, da essa dipendenti. Indagando sulla nascita e sullo sviluppo del sistema capitalistico, Marx matura la convinzione che le caratteristiche delle diverse società storicamente esistite dipendano essenzialmente dai mezzi di produzione e dalle tecniche produttive utilizzati, oltre che dai rapporti sociali di produzione (cioè, quelli tra le varie classi che si fronteggiano nel processo produttivo): se il sistema schiavistico era basato sullo schiavo non libero e su un rapporto del tutto dispotico tra padrone e schiavo, quella feudale si era liberata da questo vincolo, senza tuttavia risolvere il problema delle classi sfruttate da quelle dominanti. Fu, però, dopo le rivoluzioni borghesi, con la nascita delle ‘società evolute’, che si affermò il capitalismo, in cui gli uomini – apparentemente – sono tutti uguali di fronte alla legge: ad ogni modo, i proletari continuano ad essere costretti a lavorare per i proprietari dei mezzi di produzione, all’interno di una dipendenza di natura prettamente economica. In altre parole, chi non ha niente è costretto a dover vendere le proprie prestazioni lavorative per poter sopravvivere. La caratteristica che differenzia l’economia borghese dalle altre forme è il fatto che i capitalisti non producono al fine di consumare la merce, ma di accumulare ricchezza.
La teoria del plusvalore
Nel primo libro de ‘Il Capitale’ Marx tratta il problema della merce, la quale presenta un duplice aspetto: ha un valore d’uso, in quanto è utile alla soddisfazione di un bisogno attraverso il consumo o alla produzione di altre merci, e uno di scambio, perché deve poter essere scambiata con altre merci. Secondo la sua teoria del valore, un prodotto (in base all’equazione valore = lavoro, ripresa dall’economia classica e rielaborata) ha tanto più valore quanto più tempo di lavoro viene impiegato dalla società per produrlo. Alla base di questo sistema economico c’è il capitalista, che investe denaro nelle merci, le quali vengono usate nel processo produttivo per poi venderne il prodotto e ricavarne una somma di denaro maggiore di quella investita: egli, infatti, anticipa un ‘capitale totale’, formato dal ‘capitale costante’ (equivalente al valore dei mezzi di produzione) e dal ‘capitale variabile’ (quello della forza-lavoro), per ottenere un ‘capitale realizzato’, ottenuto dalla somma del capitale totale con il ‘plusvalore’. Quest’ultimo proviene dal ‘pluslavoro’ dell’operaio e coincide con l’eccedenza di lavoro prestato rispetto a quello che sarebbe necessario per produrre i beni di consumo dei lavoratori o rispetto al lavoro rappresentato dai salari dei lavoratori. Questo lavoro in più, prestato gratuitamente, rimane a disposizione del capitalista ed è l’unica fonte del suo profitto. La produzione di plusvalore, pertanto, rappresenta per Marx una “legge assoluta” del modo di produzione capitalista e tale processo avviene secondo la legge del valore, al contrario di una società socialista o comunista, che sarebbe invece caratterizzata dall’assenza di proprietà privata dei mezzi di produzione, delle merci, del denaro e del capitale. In ‘Salario, prezzo e profitto’, poi, Marx ipotizza che la produzione della quantità media di oggetti necessari alla vita di un operaio richieda sei ore di lavoro medio al giorno, incorporate in una quantità d’oro uguale a tre scellini. Trattandosi, però, di un lavoratore salariato che ha venduto la propria forza lavoro al capitalista, quest’ultimo ha la possibilità di farlo lavorare dodici ore, così da generare un valore nettamente superiore a quello creato con la metà del tempo: per Marx, quindi, la giornata lavorativa dell’operaio si divide in sei ore di lavoro necessario e altrettante di lavoro non necessario (cioè, ‘pluslavoro’) aggiunte dal capitalista al fine di ottenere un valore maggiore rispetto a quello pagato. La conseguenza è che il ‘pluslavoro’ generi, di fatto, un ‘plusprodotto’ e, quindi, un ‘plusvalore’: anticipando i tre scellini per pagare le dodici ore di lavoro dell’operaio, infatti, il capitalista ottiene un valore di sei, di cui tre rappresentano il salario dell’operaio stesso e altrettanti il ‘plusvalore’ di cui si appropria sotto forma di profitto. Infine, Marx distingue il ‘plusvalore assoluto’, ovvero quello prodotto mediante il prolungamento della giornata lavorativa oltre il tempo necessario a produrre il valore dei fattori di produzione, e il ‘plusvalore relativo’, cioè quello derivante dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa, che si ottiene aumentando il ‘pluslavoro’ a discapito del lavoro necessario e la forza produttiva e l’intensità del lavoro (tramite meccanizzazione e razionalizzazione), ma anche riducendo i salari entro un determinato limite e il costo dei beni-salario attraverso vari mezzi: il ‘plusvalore relativo’ non nasce in una singola impresa, ma dalla relazione totale tra più imprese e più rami dell’industria quando il tempo di lavoro necessario alla produzione si riduce, determinando una variazione del valore della forza-lavoro.