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Petronio e il Satyricon: la satira sociale nell'antica Roma

Si tratta di una rappresentazione comico-romanzesca del mondo contemporaneo all’autore, con particolare attenzione alla degenerazione del potere imperiale e alla decadenza morale

Silvia Pino

Silvia Pino

GIORNALISTA PUBBLICISTA

Ho iniziato con le lingue straniere, ho continuato con la traduzione e poi con l’editoria. Sono stata catturata dalla critica del testo perché stregata dalle parole, dalla comunicazione per pura casualità. Leggo, indago e amo i giochi di parole. Poiché non era abbastanza ho iniziato a scrivere e non mi sono più fermata.

Di cosa tratta il Satyricon

Il Satyricon, giuntoci incompleto, è un’opera scritta – probabilmente, in quanto l’identità dell’autore non è stata chiarita in modo inequivocabile – intorno alla metà del I secolo da Gaio Petronio Arbitro, celebre ‘arbiter elegantiae’ presso la corte di Nerone e morto suicida nel 66 perché sospettato di aver partecipato ad una congiura contro l’imperatore. Si tratta di un racconto – esposto in prima persona – del protagonista, Encolpio, anche se, quando inizia il frammentario testo superstite, alcune vicende sono già accadute: egli, infatti, è sfuggito alla giustizia, è scampato ad un agone gladiatorio, ha ucciso un ospite e ha rubato delle monete d’oro. In una prigione, poi, ha conosciuto il bellissimo Gitone, di cui si è innamorato, prima di fuggire in sua compagnia. Si ritrova, quindi, implicato in fastidiosi rapporti con più persone, dalla cortigiana Trifena al ricco mercante e marinaio Lica e sua moglie Edile. En­colpio vorrebbe vivere in pace il suo amore con Gitone, ma è vittima di continui attacchi di gelosia. Alla coppia si unisce Ascilto, un altro aitante giovane, cui Encolpio nasconde il legame con Gitone. I fatti si svolgono in una città greca della Cam­pania, dove i protagonisti profanano un tempio di Priapo, smarrendo un mantello con 12 monete d’oro. All’inizio del frammento pervenuto, Encolpio si trova nel portico di una scuola e discute col professore di retorica Agamennone, mentre Ascilto raggiunge la locanda dove lo attende Gitone. In preda alla gelosia, Encolpio lo insegue, ma entrambi si perdono in un labirinto di vicoli: la vicenda termina con una sorta di mimo, tra litigi e risate di rappacificamento finale. Alla sera Encolpio e Ascilto si recano al mercato per cercare di vendere un mantello rubato e incontrano un contadino con la tunica che avevano smarrito, che dice di essere il proprietario del mantello: lo scambio della refurtiva evita loro un’azione giudiziaria. Vengono quindi raggiunti dalla sacerdotessa di Priapo, Quartilla, che rinfaccia loro di averle causato, con la profanazione del tempio, un grave attacco di febbre: ad espiazione del gesto e come terapia per la sacerdotessa malata, i tre vengono sottoposti a torture erotiche di ogni genere, evitando una punizione più dura soltanto grazie all’invito a cena di Agamennone. Il racconto si sposta dunque a casa di Trimalcione, un rozzo liberto arricchitosi immensamente mediante l’attività commerciale, dove i tre giovani si trovano invitati a un luculliano banchetto: tale scena occupa circa metà dell’intero scritto pervenutoci. Qui sono presenti numerosi personaggi, la portata del cibo è altamente coreografica, si svolgono giochi acrobatici ad opera della servitù e impazzano i racconti tra i commensali, sui più svariati argomenti, che offre uno spaccato, non privo di volgarità, della vita quotidiana di quel particolare ceto sociale. All’arrivo di Abinna, un costruttore impegnato nella realizzazione del maestoso monumento funebre di Trimalcione, quest’ultimo decide d’inscenare il proprio funerale: i giovani, disgustati, approfittano della confusione per scappare. Dopo essere rincasati, Encolpio, ubriaco, si addormenta, mentre Ascilto giace con Gitone. Sorpresili a letto nudi, il protagonista rompe l’amicizia con Ascilto, cui propone di dividersi i loro beni comuni e di andare ognuno per la propria strada. Al momento dell’addio, però, Gitone sceglie di stare con Ascilto, lasciando Encolpio solo e disperato. Inizia quindi a vagare senza meta, meditando la vendetta, quando si imbatte in Eumolpo, un vecchio e squattrinato letterato, cui racconta tutte le proprie disavventure. Notato, poi, il suo interesse per un quadro raffigurante la presa di Troia, l’anziano poeta gliene offre un resoconto in versi (la celebre ‘Troiae halosis’): gli astanti, che non apprezzano la ‘performance’, costringono i due a una repentina fuga. Encolpio invita il suo nuovo amico a cena ma, per caso, incontra Gitone: questi lo implora di riprenderlo con sé e il protagonista accetta, sottraendolo – con l’aiuto di Eumolpo – alle grinfie di Ascilto con l’inganno. Encolpio, Gitone ed Eumolpo s’imbarcano quindi su una nave, ignari del fatto che si trovasse sotto il comando del temibile Lica di Taranto, una vecchia conoscenza del giovane. A bordo c’è anche Trifena, una ricca nobildonna da cui Gitone sembra nascondersi. I due giovani provano, invano, a fingersi i servi di Eumolpo, ed è proprio quest’ultimo – con una lunga arringa difensiva – a salvare loro la vita. Di lì a poco una violentissima tempesta farà affondare la nave, ma i tre riusciranno a restare illesi: naufragati sulle coste del Bruzio, Eumolpo suggerisce di recarsi a Crotone e, durante il tragitto, recita un poema epico sul Bellum civile (“La guerra civile”) fra Gaio Giulio Cesare e Gneo Pompeo Magno. Dai frammenti pervenuti, si apprende che i tre vivono nel lusso nell’attuale provincia calabrese: Encolpio, però, divenuto impotente a causa dell’ira di Priapo, è oggetto delle ripicche di Circe, una sua ricca amante convinta di essere disprezzata. Decide di non unirsi più con l’amato Gitone e di rivolgersi alle maghe Proseleno ed Enotea le quali, con la scusa di praticare un rituale curativo, preparano il giovane a subire un rapporto anale, cui Encolpio riesce a stento a scampare. Eumolpo, nel frattempo, fa spargere la voce che sia morto e fa redigere un testamento in cui specifica che gli eredi avranno diritto alle sue sconfinate ricchezze solo se faranno a pezzi il suo corpo e se ne ciberanno in presenza del popolo. La narrazione termina dunque con una conversazione tra i protagonisti su alcuni casi di cannibalismo verificatisi nel corso della storia.

La satira sociale

Il Satyricon si inserisce in un clima intellettuale particolarmente attento alla riflessione sulla degenerazione del potere imperiale e sulla decadenza morale della società romana e, al tempo stesso, del tutto estraneo a qualsiasi intento moralistico. Petronio, infatti, utilizzando la finzione letteraria e l’ironia a più livelli come una sorta di ‘filtro’, fotografa con grande realismo il mondo in cui vive e ne fa il vero protagonista della sua opera, da cui emergono tutti i difetti e i vizi della società contemporanea: dall’esasperazione dei piaceri materiali, in primis il cibo e il sesso, al predominio dell’esteriorità sui valori morali, passando per la tendenza al lusso e per l’ostentazione della ricchezza, tipica soprattutto dei cosiddetti ‘nuovi ricchi’, e cioè i liberti. Il romanzo, ad ogni modo, si ricollega alla satira sociale sia per la sua forma esametrica, sia come variante della satira menippea, con cui condivide il prosimetro. I fatti licenziosi e il realismo, invece, sono un evidente segno degli influssi della novella milesia. Satira, erotismo e parodia rendono quest’opera – che alterna prosa e versi – una creatura ‘ibrida’, che prende senza dubbio spunto dal romanzo greco di età ellenistica, ma ne ribalta completamente i canoni. Anche se Petronio non è il primo autore a offrire un giudizio personale sui costumi e le abitudini del popolo, criticandone l’avidità, la corruzione e la dissolutezza, ciò che distingue il Satyricon dalle satire di Lucilio o Persio è che l’immagine della società non è deformata dal moralismo conservatore tipico della mentalità romana: qui, infatti, appare assai complicato comprendere il suo pensiero e la sua posizione sui temi trattati. La tecnica narrativa adottata, inoltre, comporta un mutamento di prospettiva rispetto alla satira: il punto di vista è interno al racconto, soggettivo, e non coincide con quello dell’autore e spesso nemmeno con quello del narratore. Tale soggettivismo è evidenziato anche dalla cosiddetta “mimesi dello stile”: ciascun personaggio, infatti, si esprime a seconda della sua posizione sociale e del suo livello di istruzione. Si può dunque concludere affermando che il Satyricon sia un’imitazione del reale, che riduce al minimo la stilizzazione e gli schemi fissi al tal punto da essere considerato, se non proprio un unicum, quantomeno un caso rarissimo nella letteratura antica.