Purgatorio, Canto VI: Sordello
Ancora fra i morti per forza nella seconda balza dell'Antipurgatorio, Dante, dopo l'incontro con il poeta di Goito, rivolge un'invettiva contro il Belpaese e, in particolare, contro Firenze
L’incontro con Sordello da Goito
Esattamente come nel gioco della zara, in cui il vincitore deve ‘difendersi’ dalla calca intorno a lui dando retta a tutti, porgendo loro la mano, Dante, ancora nella seconda balza dell’Antipurgatorio, si ritrova circondato dalle anime dei morti per forza, rivolgendosi ora a questo ora a quello. Tra loro ci sono l’Aretino, che venne ucciso da Ghino di Tacco, Guccio de’ Tarlati, che morì annegato, Federico Novello, il pisano che fece sembrare forte il padre Marzucco, il conte Orso degli Alberti e Pierre de la Brosse, che afferma di essere stato assassinato per invidia e non per colpa e che Maria di Brabante dovrebbe pentirsi per evitare di finire tra i dannati. Non appena il poeta fiorentino riesce a smarcarsi dagli spiriti, si rivolge a Virgilio e gli ricorda come in alcuni suoi versi egli abbia privato la preghiera del potere di piegare un decreto divino. Del resto, questo è proprio ciò che si augurano queste anime, pertanto Dante non è in grado di capire se la loro speranza sia vana, oppure se abbia mal interpretato ciò che scrisse il suo maestro. Quest’ultimo replica che i suoi versi sono chiari e che la speranza di questi penitenti è ben riposta, a patto di giudicare con mente sana: infatti, il giudizio divino non si piega soltanto perché l’ardore di carità della preghiera compie in un istante ciò che devono scontare queste anime. Nei versi dell’Eneide, in fondo, egli affrontò questo tema, affermando che la colpa non veniva lavata dalla preghiera, in quanto scollegata dal volere di Dio. Virgilio, quindi, esorta Dante a non tenersi il dubbio e di attendere Beatrice per migliori spiegazioni: la sua amata, che lo attende sorridente sulla cima del monte, sarà lieta di illuminare la sua mente. Con rinnovato entusiasmo, Dante invita la sua guida ad affrettare il passo, sentendosi anche meno stanco e notando come il monte proietti già la sua ombra, essendo sopraggiunto il pomeriggio. Virgilio gli risponde che il loro cammino proseguirà sino al termine della giornata, quanto più potranno, ma è bene che sappia che le cose sono un po’ diverse da come le immagina: prima di arrivare sulla sommità, infatti, il poeta fiorentino vedrà il sole tramontare e poi risorgere. Virgilio, quindi, gli indica un’anima che se ne sta in disparte e guarda verso di loro: questa potrà indicar loro la via più rapida per salire. Si avvicinano quindi allo spirito, che resta in silenzio, con aria dignitosa, ma guardandoli come un leone in attesa. Virgilio lo prega di indicargli il cammino migliore, ma questi non risponde e domanda a sua volta chi essi siano e da dove vengano. Virgilio non fa in tempo a dire “Mantova” che, immediatamente, viene abbracciato calorosamente: il penitente si presenta come Sordello, originario della sua stessa terra e, precisamente, di Goito.
Le invettive contro l’Italia e Firenze
Dante, a questo punto, lancia una violenta invettiva contro l’Italia, che definisce la sede del dolore e una nave senza timoniere in una tempesta, non più signora delle province dell’Impero Romano ma bordello. L’anima di Sordello ha salutato con affetto Virgilio soltanto per le comuni origini, mentre i cittadini in vita si fanno continuamente la guerra, persino gli abitanti del medesimo Comune. L’Italia, pertanto, dovrebbe guardare bene entro i suoi confini: soltanto così prenderebbe coscienza di come non ci sia una sola parte di essa che si goda la pace. A che è servito che Giustiniano ordinasse le leggi se poi non c’è nessuno a metterle in pratica? Gli italiani dovrebbero permettere all’imperatore di governarli, anziché lasciar andare in rovina il Paese, affidandolo a gente incapace. Dante accusa anche l’imperatore Alberto I d’Asburgo per aver abbandonato l’Italia: avrebbe dovuto guidarla, invece di permettere che questa terra si trasformasse in una bestia sfrenata. Si augura, quindi, che il giudizio divino colpisca duramente sia lui che i suoi discendenti, al punto che il suo successore ne abbia timore. Nella visione del poeta fiorentino, Alberto dovrebbe venire a vedere le lotte tra famiglie rivali, gli abusi subìti dai suoi feudatari, la rovina della contea di Santa Fiora e Roma che si lamenta per essere in balia del suo sovrano, così come il dilagante odio tra le persone e, se tutto ciò non gli stesse a cuore, dovrebbe quantomeno vergognarsi della sua reputazione. Dante, allora, si rivolge a Giove (da intendere come Cristo), crocifisso per noi, domandandogli se stia rivolgendo altrove il proprio sguardo o se abbia in serbo per l’Italia un destino migliore, di cui ancora nessuno è a conoscenza. Ogni angolo dello Stivale, infatti, è pieno di tiranni e ogni contadino che sostenga una parte politica viene esaltato come un Marcello. Con grande ironia, poi, il poeta fiorentino osserva come la sua città natale possa essere lieta del fatto di non essere toccata da questa digressione, dal momento che i suoi abitanti contribuiscono alla sua pace: seppur ci siano tante persone giuste e, nonostante ciò, molto restie ad emettere giudizi, i fiorentini, al contrario, non hanno timore alcuno, riempiendosi la bocca della parola “giustizia”. Addirittura, in tanti, in giro per l’Italia, rifiutano gli uffici pubblici, ma non i suoi concittadini, che sono piuttosto fin troppo soliti a ricoprire le cariche politiche. Firenze, quindi, dev’essere lieta, perché è ricca, pacifica e assennata: Atene e Sparta, le poleis ricordate per le prime leggi scritte dall’uomo, diedero un piccolo contributo al vivere civile rispetto a Firenze, che emette deliberazioni “così sottili” – vale a dire gli esili – che quelle di ottobre non arrivano alla metà di novembre. La città toscana ha mutato le sue usanze innumerevoli volte e, se ha ancora capacità di giudizio, non potrà far altro che ammettere di essere del tutto simile a un’ammalata che non trova riposo nel letto e che cerca di lenire le proprie sofferenze rigirandosi continuamente.