Salta al contenuto

Paradiso, Canto XXXIII: visione di Dio e conclusione Commedia

Dopo la preghiera di san Bernardo e l'intercessione di Maria, Dante fissa lo sguardo nella mente del Creatore, analizza i grandi misteri e resta 'folgorato' per il supremo appagamento provato

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

La visione di Dio

San Bernardo invoca Maria come la più alta e la più umile di tutte le creature, capace di nobilitare la natura umana a tal punto da indurre Dio a incarnarsi. L’amore tra l’Onnipotente e gli esseri mortali si riaccese nel suo ventre, facendo germogliare la rosa celeste dei beati, per i quali rappresenta una perenne luce di carità: è talmente piena di bontà, magnificenza e pietà, che concede ogni grazia, spesso prevenendone la richiesta. Il santo, poi, dal momento che Dante è arrivato nell’Empireo dal profondo dell’Inferno e ha visto lo stato delle anime dopo la morte, supplica Maria di concedergli la virtù sufficiente per figgere lo sguardo nella mente di Dio: lo desidera più di quanto l’abbia mai bramato per sé e la implora sia di dissipare i veli che offuscano i suoi occhi mortali, sia di conservare la purezza dei suoi sentimenti dopo una tale visione. Tutti i beati della rosa, compresa Beatrice, si uniscono idealmente a tale preghiera e la Regina del Cielo, tenendo il suo sguardo fisso in quello di san Bernardo, dimostra così di accoglierla. Quindi, si volta in direzione della luce di Dio, nella quale solo lei può addentrarsi con tanta chiarezza: Dante, ormai vicinissimo alla realizzazione di tutti i suoi desideri, consuma tutto il proprio ardore, mentre san Bernardo gli sorride e lo invita a guardare in alto. La vista di Dante, via via sempre più chiara, si addentra nella luce divina, rendendo il suo linguaggio insufficiente a descrivere ciò che osserva e la sua memoria incapace di ricordare quel momento con dovizia di particolari: è come un sogno di cui, al risveglio, non resta che qualche impressione, e tutto quel che conserva è la dolcezza infinita provata in fondo al cuore. A questo punto, il Dante-personaggio invoca la luce di Dio affinché gli consenta di ricordare in minima parte come essa gli si mostrò, mentre il Dante-autore si sforza di scrivere in modo tale da poter, quantomeno, lasciare ai posteri una scintilla della Sua gloria. Fissato lo sguardo nella mente di Dio, il poeta fiorentino resterebbe smarrito se provasse a distoglierlo: al contrario, acquisisce il coraggio per sostenere quella straordinaria visione, addentrandosi ancor di più verso l’infinito, spingendo la sua vista all’estremo: ha così modo di osservare l’intero Universo e l’essenza divina che unifica le cose create in un tutto perfettamente armonico. Tiene lo sguardo fisso, essendo impossibile volgere gli occhi altrove, poiché tutto il bene possibile è racchiuso nella luce divina, dove ogni cosa difettosa al di fuori, lì è perfetta: seppur quel momento sia ormai dimenticato, del quale è in grado di raccontare meno di quanto potrebbe fare un bambino ancora allattato dalla madre, riesce ancora a percepire la gioia provata.

I misteri della Trinità e dell’incarnazione

Ciò che Dante osserva è una luce viva sempre uguale a se stessa, piuttosto è lui a cambiare dentro di sé man mano che la sua vista si accresce, così che la visione muta di pari passo con il suo atteggiamento interiore. Al suo interno crede di vedere tre cerchi, cioè la Trinità, delle stesse dimensioni ma di colori diversi, e se il secondo (il Figlio) sembra il riflesso del primo (il Padre), una sorta di arcobaleno crea il terzo (lo Spirito Santo), che appare come una fiamma che spira ugualmente dai primi due. Ancora una volta, il Dante-autore si rammarica del fatto che il suo linguaggio è assolutamente insufficiente ad esprimere la propria visione, la quale, se paragonata all’essenza della Trinità, è davvero un nulla: afferma di aver potuto osservare la luce eterna che trova fondamento in se stessa, si comprende da sé e, compresa da se stessa, arde d’amore. Quindi, il Dante-personaggio, si sofferma sul secondo cerchio, all’interno del quale gli sembra di scorgere un’immagine umana, perfettamente visibile nonostante abbia lo stesso colore dell’oggetto circolare. Il poeta si sente come uno studioso della geometria, concentrato a risolvere il problema della quadratura del cerchio ad ogni costo, senza tuttavia riuscirci, in quanto privo di un elemento fondamentale: anche lui, infatti, sta cercando di capire quale sia il rapporto tra l’immagine e il cerchio, ma le sue sole forze risultano totalmente insufficienti. Dopo aver ammesso la propria incapacità di comprendere il mistero dell’Incarnazione dell’umano nel divino, però, la sua mente viene colpita da un alto fulgore che, in una sorta di rapimento mistico, appaga il suo desiderio. Il capolavoro di Alighieri si conclude con il protagonista del poema che sente la propria immaginazione completamente svuotata di forze, anche se l’amore divino ha placato la sua sete di sapere, guidandola come una ruota che si muove in modo regolare e uniforme.