Salta al contenuto

Paradiso, Canto XX: i re giusti e la provvidenza divina

Nel VI Cielo di Giove, gli spiriti che formano l'occhio dell'aquila affrontano con Dante i temi della salvezza e della predestinazione

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

I re giusti e l’occhio dell’aquila

Dante osserva le luci dei beati, che non appena l’aquila smette di parlare aumentano il proprio splendore e iniziano a intonare un canto ormai svanito dai suoi ricordi, paragonandole alle stelle che appaiono in cielo la sera. Ciò che si manifesta in tale scintillio è l’ardore di carità e, quando smettono di cantare, Dante percepisce una sorta di mormorio, simile a un corso d’acqua che scende dal monte, al suono della cetra che vibra nel suo manico o alla zampogna quando emette il soffio. Così, l’aquila riprende a parlare e il suono sembra provenire dal suo collo, come se fosse forato, trasformandosi a poco a poco in una vera e propria voce, che il protagonista attende con frenesia di ascoltare. L’aquila lo invita a guardare con attenzione il proprio occhio, perché gli spiriti giusti che risiedono lì sono i più degni in assoluto. Al centro, come se fosse la pupilla, c’è David, il cantore dello Spirito Santo che trasportò l’Arca dell’Alleanza, mentre sul ciglio ci sono l’imperatore Traiano, che fece giustizia alla vedova e che ora capisce il prezzo del non avere fede, avendo conosciuto la vita nel Limbo, Ezechia, il re biblico che differì la propria morte e che adesso ha chiaro come il giudizio divino possa essere solo rimandato e non annullato, Costantino, l’imperatore che cedette Roma al papa, commettendo un errore ma con buone intenzioni, Guglielmo il Buono, rimpianto da Napoli e dalla Sicilia e fiero di quanto sia apprezzato da Dio un buon sovrano, e il troiano Rifeo, ora molto più consapevole di quello che gli uomini sanno della grazia divina. L’uccello sacro appare a Dante simile a un’allodola, che prima vola e canta e poi tace compiacendosi. Tuttavia, è assalito da un dubbio e non riesce a trattenere un’esclamazione di stupore: le anime, che possono leggere nella sua mente, manifestano la gioia di poter rispondere, intensificando il proprio bagliore.

La salvezza e la provvidenza divina

L’aquila riprende a parlare, affermando di capire come Dante creda a ciò che ha sentito pur non comprendendone la ragione, come capita a chi conosce una cosa per il suo nome e non per la sostanza. La volontà divina, del resto, può essere vinta, ma non come un uomo che ne sopraffà un altro, ma semplicemente perché essa lo permette, vincendo così, a sua volta, con la bontà. Dante resta stupito della beatitudine dei pagani Rifeo e Traiano, scoprendo, però, che questi morirono, in un certo, senso da Cristiani, avendo creduto il primo in Cristo venturo e il secondo in Cristo venuto. L’anima di Traiano, infatti, fu evocata dal Limbo e tornò a vivere per breve tempo, grazie alla viva speranza di san Gregorio che pregò intensamente per la sua resurrezione: di nuovo tra i mortali, egli credette in Cristo e si riempì di una tale carità da guadagnarsi la salvezza. Rifeo, invece, attraverso il dono della grazia divina, fu estremamente giusto in vita e ricevette da Dio la conoscenza della futura Redenzione: da quel giorno rinnegò il paganesimo, venendo battezzato per infusione diretta delle virtù teologali, mille anni prima che il battesimo fosse istituito. La predestinazione, prosegue la voce degli spiriti che formano il rapace, ha una radice molto lontana rispetto agli sguardi degli uomini che non possono vedere Dio nella sua interezza. Questi, infatti, devono essere cauti nel pronunciare giudizi, dal momento che i beati, che al contrario vedono Dio direttamente, ancora non conoscono l’esatto numero degli eletti e tale incompleta conoscenza risulta loro dolce, in quanto provano felicità di riflesso da quella di Dio e, pertanto, non vogliono niente di diverso da ciò che Dio stesso vuole per loro. Termina così il discorso dell’aquila che, per Dante, è stato come una medicina, mentre egli ammira le anime di Rifeo e Traiano far lampeggiare all’unisono il proprio splendore, come due occhi che sbattono contemporaneamente, come un bravo citarista accompagna il canto con il suono delle corde.