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Paradiso, Canto XIX: aquila mistica e il mistero della giustizia

Ancora nei VI Cielo di Giove, Dante risolve un atavico dubbio, poi ascolta la rassegna sui principi cristiani corrotti

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

L’aquila e l’imperscrutabilità della giustizia divina

Formata da migliaia di spiriti giusti, ognuno dei quali sembra un rubino colpito dai raggi del sole, l’aquila si staglia di fronte a Dante ad ali aperte. Le anime iniziano a parlare come se fossero una sola, una cosa straordinaria che colpisce Dante, affascinato dall’illusione che le parole udite provengano dal becco dell’aquila, la quale utilizza pronomi e aggettivi come ‘io’ e ‘mio’ anziché ‘noi’ e ‘nostro’. L’aquila afferma che tutti questi spiriti sono stati giusti e pii sulla Terra, dove hanno lasciato un buon esempio riconosciuto anche dai malvagi che hanno scelto di non seguirlo e, pertanto, ora sono stati innalzati alla gloria del Paradiso. Dante ascolta, con l’impressione che tale suono abbia lo stesso calore di quello prodotto da innumerevoli braci e che l’immagine che ha di fronte a sé sia un insieme di fiori che emana un solo profumo, poi si rivolge agli spiriti che formano l’aquila pregandoli di chiarire un suo atavico dubbio, paragonato a un antico digiuno che gli ha fatto patire la fame per molto tempo, non avendo trovato un cibo adeguato sulla Terra: egli sa che la giustizia divina si riflette nella gerarchia angelica dei Troni, ma è certo che loro la conoscono senza veli. Le anime che formano l’aquila, che sembra un falcone cui è stato tolto il cappuccio, intonano un canto che solo i beati possono comprendere, dopodiché rispondono che Dio, quando ha creato l’Universo, non ha impresso il suo valore ovunque, in modo tale che il suo Verbo non restasse infinitamente superiore alla capacità di comprensione umana. Ne è una prova il fatto che Lucifero, la più alta di ogni creatura, si ribellò a causa della sua superbia: ciò significa che qualunque essere inferiore a lui non può comprendere a pieno quel bene infinito che è Dio. La visione umana, inoltre, che è soltanto uno dei raggi della mente divina, per propria natura non è in grado di capire il primo principio, cioè il Creatore stesso, in quanto è al di là della sua portata. L’occhio umano, perciò, non può internarsi nella giustizia divina, esattamente come è impossibile osservare il fondo dell’oceano quando si è alto mare. L’unica cosa che non potrà mai essere offuscata è la luce che arriva direttamente da Dio, al contrario di ogni conoscenza umana, che è invece limitata e imperfetta a causa dei sensi e che può portare addirittura a credenze totalmente errate.

Il problema della salvezza e i principi cristiani corrotti

Grazie alla spiegazione ricevuta Dante è ora in grado di comprendere ciò che suscitava i suoi dubbi, sorti quando pensava agli uomini nati in luoghi lontani dove non si sente mai parlare di Cristo ma che, eppure, vivono un’esistenza virtuosa e priva di peccati. Si domanda, pertanto, dal momento che costoro moriranno non battezzati e privi di fede, e di conseguenza impossibilitati ad ottenere la salvezza, come ciò possa conciliarsi con la giustizia divina e l’aquila gli spiega che egli, in quanto uomo, non può ergersi a giudice di una questione tanto profonda, né pretendere di poter vedere una verità così lontana con la sua vista limitata. La volontà di Dio, infatti, è di per sé buona e tutto ciò che ne è conforme è naturalmente giusto: nessun bene creato attira a sé la volontà divina, ma è questa a crearlo tramite la Grazia. A questo punto, l’aquila inizia a volteggiare come una cicogna che ha appena sfamato i propri pulcini, mentre il poeta la guarda ammirato, poi intona un canto, dicendogli che non potrà comprenderlo, esattamente come l’uomo non può capire a fondo la giustizia divina. L’insieme di spiriti, poi, riprende la sua posizione e torna simile al simbolo dell’Impero Romano, quindi riprende la parola, affermando che nessuno è mai asceso al Paradiso senza aver creduto in Cristo. Sulla Terra in tanti hanno il suo nome sulle labbra, ma il Giorno del Giudizio saranno a Lui molto meno vicini di quegli uomini che non l’hanno mai conosciuto e sono morti senza battesimo. Un etiope, quindi, seppur morto senza la fede, potrà condannare quei falsi cristiani nel momento in cui il giudizio divino separerà in eterno le anime fra eletti, destinati alla salvezza, e reprobi, destinati invece alla dannazione. Quel giorno si leggeranno, nel libro della giustizia divina, le malefatte dei sovrani cristiani, come Alberto I d’Austria, che presto invaderà la Boemia e la città di Praga, Filippo il Bello, che causerà danno alla Francia coniando moneta falsa, Edoardo I, che non si rassegnò a restare nei propri confini, Ferdinando IV e Venceslao II di Boemia, peccatori di lussuria. Nel libro ci sarà spazio anche per le pochissime buone azioni di Carlo II d’Angiò, così come per le sue moltissime malvagità, esattamente come per l’avarizia e la viltà di Federico II d’Aragona, le empietà di suo zio Giacomo, re di Maiorca, e del fratello, Giacomo II d’Aragona, che hanno disonorato la loro famiglia. E lo stesso accadrà per il re di Portogallo, Dionigi, per quello di Norvegia, Acone V, e per Stefano, sovrano della Serbia. Sarà, invece, felice l’Ungheria, perché conoscerà il buon governo di Caroberto, figlio di Carlo Martello, mentre la Navarra passerà sotto la monarchia francese con suo grave danno. A dolersi, infine, sarà l’isola di Cipro, sottoposta al governo di Arrigo II di Lusignano, anch’egli appartenente alla casata transalpina.