Paradiso, Canto XXI: il cielo di Saturno
Dante, asceso al VII Cielo al seguito di Beatrice, incontra gli spiriti contemplanti e ascolta l'invettiva contro il lusso dei prelati
Il VII Cielo di Saturno
Dante rivolge il proprio sguardo in direzione di Beatrice e si accorge che non sta sorridendo. È lei stessa a spiegargli che, qualora lo facesse, egli verrebbe ridotto a un cumulo di cenere come accadde a Semele di fronte a Giove, dal momento che la sua bellezza accresce man mano che si sale di Cielo in Cielo: il suo splendore, pertanto, deve essere inevitabilmente mitigato ai suoi occhi mortali. Quindi, lo informa che sono appena ascesi al VII Cielo, quello di Saturno, e che dovrà osservare con molta attenzione tutto quello che vedrà. Se il poeta fiorentino prova godimento alla vista della sua amata, quando guarda lo spettacolo che lo circonda prova un’emozione altrettanto grande, al punto che gli sembra che le due cose si bilancino perfettamente. Dante vede una scala scintillante di colore dorato, che si erge verso l’alto a perdita d’occhio, tanto che non riesce a individuarne la fine, mentre moltissime luci di beati – quelle degli spiriti contemplanti – la percorrono scendendo: questi, di tanto in tano, si fermano e compiono vari movimenti sui diversi gradini, come i corvi al mattino alla ricerca di calore, quando alcuni volano via senza fare ritorno e altri tornano nel medesimo punto da dove erano partiti.
San Pier Damiani e la critica alla corruzione ecclesiastica
Uno degli spiriti si ferma vicino a Dante e Beatrice, splendendo con una tale intensità che il poeta capisce immediatamente quanto grande sia l’amore che egli manifesta nei suoi riguardi. Vorrebbe porgli alcune domande ma, dal momento che Beatrice non ha ancora proferito parola, si trattiene. La donna, però, legge nella mente di Dio il desiderio del poeta e lo invita a parlare liberamente al beato. Dante, allora, chiede la ragione per cui si sia avvicinato a lui e perché le anime in questo Cielo tacciono, contrariamente a quelli incontrati precedentemente, nei quali tutti intonavano canti sublimi. Lo spirito gli spiega che egli ha un udito mortale, come la vista, e il motivo per cui i beati non stanno cantando è del tutto analogo al perché Beatrice non sorride. Tuttavia, aggiunge di essere sceso solo per manifestare la gioia, sua e degli altri beati, per la sua presenza, e che è stata la volontà divina a permettere il loro incontro, facendo leva sul suo ardore di carità. Dante dice di capire come questa spinga ad obbedire alla Provvidenza divina, ma vorrebbe sapere come mai proprio a lui sia stato conferito il compito di accoglierlo: prima ancora che terminasse la domanda, san Pier Damiani inizia a ruotare velocemente sul proprio asse, spiegando poi che la grazia divina penetra in lui e, insieme al suo intelletto, lo eleva a tal punto che egli può vedere la somma essenza di Dio. È da qui che nasce il suo splendore, che equivale alla gioia che prova nella visione divina: tuttavia, neppure il Serafino più vicino a Dio potrebbe mai rispondere adeguatamente alla sua domanda, perché si tratta di una materia che affonda nell’abisso del giudizio divino, estremamente distante dallo sguardo sia delle creature umane che di quelle angeliche. Inoltre, esorta Dante, quando sarà tornato a casa, ad ammonire tutti di non presumere di comprendere i misteri divini, poiché la mente che in Cielo è illuminata, sulla Terra è come se fosse offuscata dal fumo e, quindi, nessuno potrà mai comprendere l’enigma della predestinazione da vivo, dal momento che non sarà in grado di farlo neppure da beato. La risposta ricevuta, per il poeta fiorentino, è talmente soddisfacente da abbandona la questione della predestinazione, limitandosi a chiedere gentilmente l’identità del suo interlocutore. Lo spirito, allora, afferma che, sull’Appennino, non troppo lontano da Firenze, sorge il monte Catria, al di sotto del quale si trova l’eremo camaldolese di Fonte Avellana che, un tempo, era destinato unicamente al culto di Dio. Fu qui che, in vita, si ritirò a vita monastica e condusse un’esistenza umile, alimentandosi di cibi modesti e dedicandosi alla contemplazione di Dio. Un tempo quel monastero forniva molte anime sante al Paradiso, mentre oggi ne è privo e, ben presto, ciò sarà evidente a tutti. Egli fu Pier Damiani e, col nome di Pietro Peccatore, fu nel monastero di S. Maria in Porto presso Ravenna mentre, ormai prossimo alla morte, fu insignito della dignità cardinalizia, indossando quel cappello che ora passa dalla testa di un individuo indegno a quella di uno peggiore. Aggiunge, poi, che san Pietro e san Paolo vissero in povertà chiedendo l’elemosina, accettando il cibo da chiunque, mentre ora i cardinali sono corpulenti, circondati di servi, trasportati in carrozza e coi loro ampi mantelli coprono i loro cavalli, al punto che sotto di essi sembrano esserci due bestie, anziché una: per loro fortuna, però, la pazienza di Dio è infinita, al punto da sopportare un lusso così sfrenato. A questo punto, Dante vede scendere le luci di molte altre anime, via via sempre più belle e luminose, fino a fermarsi attorno a Pier Damiani, quando emettono un grido fragoroso come un tuono, di cui, tuttavia, non riesce a comprenderne il significato.