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Silvio Pellico, vita e pensiero dell'autore de "Le mie prigioni"

Scrittore, poeta e patriota, aderì al movimento carbonaro dei Federati, favorevole all'indipendenza e all'Unità d'Italia

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

Sensibile alla letteratura sin dalla più tenera età, Silvio Pellico si trasferì 20enne a Milano, dove si avvicinò ai circoli patriottici e romantici. Entrò, di fatto, in quel ristretto novero di intellettuali appartenenti alla generazione che diede impulso agli ideali risorgimentali e ad una coscienza politica finalizzata all’Unità d’Italia. Arrestato dagli austriaci, ricordò gli anni della sua prigionia nel suo capolavoro: “Le mie prigioni”.

Chi era Silvio Pellico

Silvio Pellico nacque a Saluzzo, attualmente in provincia di Cuneo, il 24 giugno 1789 dal commerciante piemontese di origine salentina Onorato e dalla savoiarda Margherita Tournier che, in quanto estremamente devota, diede a lui e ai suoi quattro fratelli un’educazione cattolica: basti pensare che uno, Francesco, divenne gesuita, mentre le sorelle Giuseppina e Maria Angiola presero i voti. Il primogenito Luigi, invece, condividendo gli stessi ideali – oltre che le passioni letterarie – di Silvio, tentò la carriera politica. Silvio frequentò dapprima la scuola di Pinerolo, poi si trasferì con la famiglia a Torino e quindi fu mandato dal padre a Lione per fare pratica nel settore commerciale, dedicando piuttosto il proprio tempo agli studi classici. A Milano conobbe i pilastri dei movimenti romantico e patriottico come Vincenzo Monti, Giovanni Berchet e, soprattutto, Ugo Foscolo, uno dei suoi autori preferiti e col quale strinse un rapporto di amicizia. Fu in questo periodo che Pellico iniziò a percepire dentro sé come una necessità e un dovere quello di portare a compimento l’Unità d’Italia. A Milano ottenne la cattedra di insegnante di francese presso il collegio militare fino alla caduta del regime napoleonico quindi, nel 1816, si trasferì ad Arluno, nella casa del conte Porro Lambertenghi, dove strinse relazioni con personaggi di spicco come Madame de Staël e Friedrich von Schlegel, e nel 1818 divenne direttore e redattore della rivista ‘Il Conciliatore’. Nell’estate del 1819, poi, conobbe Cristina Archinto Trivulzio, di cui si innamorò perdutamente, ma la nobildonna sposò – nel novembre dello stesso anno – il conte milanese Giuseppe Archinto. I due si rivedranno solamente nel 1836, ma saranno necessari ulteriori undici anni prima che potranno definitivamente ritrovarsi.

Silvio Pellico, l’autore ‘patriota’

Pellico, al pari di molti degli intellettuali frequentati durante la sua giovinezza, entrò nella Carboneria e, in particolare, nella setta segreta dei cosiddetti ‘Federati’ ma, una volta scoperta dalla polizia austriaca, che era riuscita ad intercettare alcune compromettenti lettere scritte da Piero Maroncelli, il 13 ottobre 1820 venne arrestato: finì così anche la sua tormentata relazione – in un primo momento non ricambiata e poi contrastata dalla propria famiglia – con l’attrice Carlotta Marchionni. Ad ogni modo, venne portato alla prigione dei Piombi di Venezia e poi in quella dell’isola di Murano, dove rimase fino al 20 febbraio 1822. Il giorno seguente, quindi, venne letta pubblicamente la sentenza del celebre Processo Maroncelli-Pellico – condotto dal noto magistrato Antonio Salvotti – in cui i due imputati furono condannati a morte, una pena commutata poi in 20 anni di carcere duro per il primo e 15 per il secondo. Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, quindi, furono trasportati nella fortezza austriaca dello Spielberg, nell’odierna Brno (oggi in Repubblica Ceca), e la terribile esperienza vissuta sarà raccontata con dovizia di particolari ne ‘Le mie prigioni’, scritto dopo la scarcerazione e che – grazie al grande successo – eserciterà notevole influenza sul movimento risorgimentale. Tornò in libertà – con un lustro d’anticipo rispetto a quanto originariamente previsto – nel 1830 e, durante il decennio trascorso dietro le sbarre, oltre al suo più grande capolavoro, scrisse ‘Memorie dopo la scarcerazione’, che andò purtroppo perduto, le tragedie ‘Gismonda da Mendrisio’, ‘Leoniero’, ‘Erodiade’, ‘Tommaso Moro’ e ‘Corradino’, il libro morale ‘I doveri degli uomini’ e la raccolta di genere romantico ‘Poesie’. Presentato loro da Cesare Balbo, venne assunto dai marchesi di Barolo Carlo Tancredi Falletti e Giulia Colbert a Palazzo Barolo, a Torino, ove rimase fino alla morte, sopraggiunta il 31 gennaio 1854. Dal 1838 Pellico riscuoteva dal re Carlo Alberto di Savoia una pensione annua di 600 lire in cambio della collaborazione in attività benefiche, mentre – dal 1851 – era entrato a far parte insieme alla marchesa Giulia del laicato francescano come terziario. Il suo rapporto con la religione, infatti, era profondamente cambiato negli anni della prigionia: dopo aver ‘smarrito’ la fede a partire dagli anni trascorsi a Lione, vi fu un improvviso riavvicinamento, anche grazie ad un altro detenuto, il conte Antonio Fortunato Oroboni. Non a caso, nei dieci anni trascorsi in carcere partecipò regolarmente alla messa della domenica e scrisse al padre come “Tutti i mali mi sono diventati leggeri dacché ho acquistato qui il massimo dei beni, la religione, che il turbine del mondo m’aveva quasi rapito“. Silvio Pellico tutt’oggi riposa nel cimitero monumentale di Torino.