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Il mito di Dedalo e Icaro

L’ingegno del padre provocherà involontariamente la morte del figlio, sordo ad ogni raccomandazione e tradito dalla sua gioventù

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Il mito di Dedalo e Icaro è in assoluto uno di quelli maggiormente interessati da analisi ed interpretazioni di ogni tipo, la più credibile delle quali resta però la sua essenza, mirabilmente colta da Giordano Bruno nel suo De gli eorici furori, con un componimento interamente dedicato al temerario figlio dell’inventore ateniese.

La voce del mio cor per l’aria sento: / «Ove mi porti, temerario? china, / che raro è senza duol tropp’ardimento»; / «Non temer (respond’io) l’alta ruina. / Fendi sicur le nubi, e muor contento: / s’il ciel sì illustre morte ne destina" (De gli eroici furori, Giordano Bruno)

Dopo di lui saranno innumerevoli i filosofi, gli scrittori e i pittori che si dedicheranno al mito di quel folle volo e della rovinosa caduta, simbolo della pericolosa tendenza umana a non accettare i propri limiti e a diventare vittima della sua innata curiosità.

Prefazione al mito

Gli affascinanti intrecci proposti dalla mitologia greca, impongono un prologo al mito di Dedalo e Icaro, utile a capire il perché padre e figlio dovranno ricorrere alle ali per evadere dal labirinto in cui li aveva rinchiusi Minosse.

Secondo il mito, Dedalo era un artista e architetto, nonché inventore ateniese, costretto a fuggire dalla città per aver ucciso il nipote ed aiutante Calo, che lo iniziava a superare eccellendo nelle arti. Accolto a Creta da Minosse, signore dell’isola, Dedalo si occupò sia della costruzione del palazzo, che del sottostante labirinto, che il Re gli aveva commissionato per rinchiudervi il Minotauro, nato dall’unione di Pasifae, moglie di Minosse e del toro divino mandato da Poseidone. Proprio Dedalo aveva, con la propria fine arte, contribuito al bizzarro accoppiamento, costruendo una vacca di legno dalle perfette fattezze, all’interno della quale si nascose Pasifae per rendere possibile la monta del toro, che diede origine alla mostruosa creatura metà uomo e metà bestia.

Proprio durante il soggiorno a Creta, Dedalo attirò l’amore di Naucrate, una delle schiave del re Minosse, attratta dalla sua formidabile abilità nelle arti, e dalla loro unione nacque Icaro. Quando però Teseo uccise il minotauro e fuggì insieme ad Arianna, Minosse accusò Dedalo di averli aiutati ad uscire e lo imprigionò insieme al figlio proprio all’interno del labirinto.

Il mito

Dedalo si rende conto che l’unica via d’uscita è il cielo e con il suo innato ingegno e l’aiuto di Icaro costruisce due paia di ali da attaccare alle braccia per riuscire a volare, realizzate con piume d’uccello, cera e fili di lino. Durante la preparazione, il padre si raccomanda con il figlio, ammonendolo sui rischi del volare troppo in basso, perché l’acqua del mare avrebbe potuto appesantire le ali, e di non spingersi troppo in alto, onde evitare pericolose cadute.

Icaro, come tutti i ragazzi, annuisce e, incoraggiato da Dedalo, spicca il volo. Il padre lo segue e i due si librano nel cielo azzurro, apparendo come degli dei agli occhi di contadini e pastori, che ne ammirano dal basso le evoluzioni. Ma l’ebbrezza procurata dalla sensazione di volare rende Icaro sordo alle raccomandazioni paterne e la curiosità lo spinge a salire ancora, verso il sole, per scoprire i limiti del cielo. Una leggerezza fatale, perché il calore dei raggi inizia a sciogliere la cera e le piume, una dopo l’altra si staccano dalle ali montate sulle spalle di Icaro. L’urlo di disperazione di Dedalo accompagna la caduta del figlio, che precipita in mare.

Al genitore, già pentito del proprio ingegno, non resta che dare una degna sepoltura alle spoglie di Icaro e proseguire la fuga, trovando riparo in Sicilia, dove viene braccato da Minosse, che morirà per mano degli abitanti dell’isola.

Cambia il finale, non la sostanza

Tra le varie interpretazioni che, come accennato, hanno riguardato il mito di Dedalo e Icaro, una delle più note è la variante proposta da un frammento dei Cretesi di Euripide, ripresa in ambito ellenistico, sia da Apollodoro nel II secolo avanti Cristo, che da Diodoro Siculo, nel secolo successivo. Secondo questa rivisitazione, la fuga di Dedalo e Icaro non si concluse con il tragico volo, ma proseguì via mare, dove ugualmente però il figlio trovò la morte, non ascoltando le raccomandazioni paterne e finendo in acqua.

trascinato dall’entusiasmo, dimentic[a] le raccomandazioni paterne" (Cretesi Euripide)

abbandonò la sua guida" (Metamorfosi, Ovidio)

Per cielo o per mare, insomma, la fine di Icaro rappresenta l’indole trasgressiva dei giovani, che pur privi di esperienza si sentono superiori agli adulti, ignorandone consigli ed insegnamenti, spinti dalla superbia e da quella sensazione di immortalità tipiche dell’età dell’incoscienza.

L’estensione del mito

Il mito di Dedalo e Icaro non si limita però ad una spiegazione ‘generazionale’, ma è stato preso a modello per considerazioni allargate sull’innata tensione dell’uomo verso la ricerca di nuovi limiti da oltrepassare, quella hybris che rappresenta il peccato mortale più inviso agli dei e che non prevede il lieto fine. Saranno Virgilio e Ovidio i primi a riprendere, in epoca romana, il concetto greco del kata metron, il giusto mezzo identificato dall’aurea mediocritas di Orazio, che cristallizza i limiti ai quali l’uomo dovrebbe attenersi, senza sentire il bisogno di sfidare gli dei o la natura.

Vola a mezza altezza, Icaro, mi raccomando, in modo che l’umidità non appesantisca le penne se vai troppo basso, e il calore non le bruci se vai troppo alto. Vola tra l’una e l’altro, ti avverto" (Metamorfosi, Ovidio)

L’altro Icaro

C’è però anche chi Icaro, anziché stigmatizzarlo, lo ha “compreso", rileggendo il mito con altri occhi e quasi giustificandone, se non sublimandone, l’imprudente comportamento. È il caso del premio Nobel Dario Fo, che riprendendo nel suo monologo Dedalo e Icaro una considerazione di Luciano di Samosata, del secondo secolo dopo Cristo, ridisegna la figura di Icaro, facendone semplicemente “un giovane deciso a vivere i propri sogni e a non lasciarsi ingabbiare dalle paure“. O come il più maledetto dei poeti, Charles Baudelaire, che nel suo struggente Lamenti di un Icaro, ne veste i panni, senza paura di bruciarsi con il sole e di sprofondare nel mare.

Sento che la mia ala si spezza / sotto non so che occhio di fuoco! / e arso dall’amore del bello, / non avrò l’onore supremo / di dare il mio nome all’abisso / che mi servirà da tomba" (Lamenti di un Icaro, Baudelaire)