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Inferno, Canto XIII: La selva dei suicidi

Nel VII Cerchio Dante incontra il politico del Regno di Sicilia e gli scialacquatori, tra cui Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

La selva dei suicidi e Pier della Vigna

Dante e Virgilio s’incamminano in una selva tetra, dal fogliame oscuro, i rami contorti e spine velenose al posto dei frutti. Qui, tra gli alberi, nidificano le Arpie, creature con grandi ali, visi umani e zampe artigliate, che producono continui lamenti. Il protagonista apprende dal maestro che si trova nel secondo girone del VII Cerchio, dove la selva si estende sino al sabbione infuocato del girone seguente, e viene invitato a osservare attentamente ciò che si trova nel bosco, perché vedrà cose incredibili. Dante sente levarsi degli striduli versi ma, non riuscendo a scorgere chi fosse ad emetterli, si ferma e rimane confuso: è convinto che provengano da spiriti nascosti tra le piante, ma Virgilio, che ha intuito il suo errore, lo esorta a spezzare un ramoscello. Dante obbedisce ma, appena eseguito il compito, viene accusato di essere impietoso dalla voce di uno spirito all’interno del tronco, dal quale esce fuoriesce nel mentre sangue nero. Il poeta fiorentino lascia cadere a terra il ramo e resta in attesa, in preda al timore, così è Virgilio a prendere la parola, dicendo all’anima imprigionata nell’albero di essere stato costretto a indurre Dante a compiere quel gesto, perché solo così egli avrebbe compreso ciò che lui stesso aveva cantato nei versi dell’Eneide. Quindi, invita il dannato a manifestarsi e a raccontare la sua storia, cosicché Dante, una volta tornato sulla Terra, potrà risarcirlo del danno subito restaurando la sua fama. Lo spirito afferma che si tratta di un’offerta troppo allettante per essere rifiutata ed inizia, quindi, a raccontare la propria storia: si presenta come Pier della Vigna, intimo collaboratore di Federico II di Svevia, tanto fedele da diventarne il solo depositario di tutti i segreti, che svolse il suo incarico con lealtà e dedizione, al punto da perderne la serenità e la vita, in quanto la sua opera zelante aveva acceso contro di lui l’invidia dei cortigiani, i quali sobillarono il sovrano e lo indussero ad accusarlo di tradimento. Fu proprio per tale ragione che decise di suicidarsi, giurando sulle radici della pianta in cui è rinchiuso di essere innocente dell’accusa rivoltagli a suo tempo, pregando Dante di confortare la sua memoria se mai ritornerà nel mondo dei vivi.

Il tema della disperazione e gli scialacquatori

A questo punto, Virgilio invita Dante a rivolgere altre domande al dannato, il quale afferma di sentirsi troppo turbato per proseguire la conversazione con lo spirito. Il poeta latino, allora, chiede a Pier della Vigna in che modo l’anima del suicida venga imprigionata dentro gli alberi della selva e se accade mai che qualcuna riesca a uscire. Il tronco emette nuovamente un soffio d’aria e la voce al suo interno spiega che, quando l’anima del suicida si separa dal corpo e giunge davanti a Minosse, il giudice infernale, questi la manda al VII Cerchio. Qui, essa cade in un punto qualsiasi e germoglia, formando così una pianta selvatica. Le Arpie, che si nutrono delle foglie degli alberi, arrecano ulteriore sofferenza alle anime e, il giorno del Giudizio Universale, queste riprenderanno le loro spoglie mortali senza tuttavia rivestirle: porteranno, infatti, i corpi nella selva, ma ciascuno spirito si limiterà ad appendere il proprio all’albero dove è imprigionato, poiché non è giusto riavere ciò di cui ci si è privati, volontariamente e violentemente. Uditi dei rumori all’interno della selva, simili allo stormire del fogliame durante una battuta di caccia al cinghiale, Dante e Virgilio scorgono due dannati che corrono tra la boscaglia, nudi e graffiati. Il primo, Lano da Siena, è più veloce, mentre il secondo, Iacopo da Sant’Andrea, è più lento e si nasconde accanto a un basso cespuglio. Poco dopo viene raggiunto da delle cagne nere, che riducono in brandelli sia lui che l’arbusto dove ha tentato invano di celarsi, e viene portato via dalle belve sotto forma di carni maciullate. Virgilio, quindi, prende per mano Dante e lo accompagna al cespuglio, dal quale, oltre che sangue, esce anche la voce del suicida imprigionato al suo interno. Mentre il dannato rimprovera lo scialacquatore che gli ha causato tanto dolore, Virgilio lo invita a manifestarsi. Questi, prima di tutto, chiede loro di raccogliere i suoi rami spezzati ai piedi dell’arbusto, quindi, rivela di essere originario di Firenze, città che mutò il proprio protettore da Marte a San Giovanni Battista (e, proprio per questo, è vittima di continue guerre) e che soltanto la statua del dio pagano sull’Arno, di cui sopravvive un frammento, la preserva dalla totale distruzione. Il dannato, infine, conclude il proprio discorso dicendo di essersi impiccato nella propria casa.