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Canto XIII Inferno di Dante: analisi e figure retoriche

Francesca Mondani

Francesca Mondani

DOCENTE DI INGLESE E ITALIANO L2

Specializzata in pedagogia e didattica dell’italiano e dell’inglese, insegno ad adolescenti e adulti nella scuola secondaria di secondo grado. Mi occupo inoltre di traduzioni, SEO Onsite e contenuti per il web. Amo i saggi storici, la cucina e la mia Honda CBF500. Non ho il dono della sintesi.

Il Canto XIII dell’inferno di Dante Alighieri trasporta il lettore in una dimensione oscura e tormentata, dove le anime dei suicidi e degli scialacquatori subiscono pene eterne per la violenza commessa contro sé stessi e i propri beni. Questo canto offre una profonda riflessione sulla disperazione umana e sulle conseguenze delle scelte autodistruttive, presentando un quadro vividamente simbolico della sofferenza e della perdita.​

Canto 13 dell’inferno: il riassunto

Dante e Virgilio, dopo aver attraversato il Flegetonte, si inoltrano in una selva tetra e intricata, priva di sentieri e caratterizzata da alberi nodosi e spogli. In questo luogo dimorano le Arpie, creature mitologiche con corpo di uccello e volto di donna, che nidificano sugli alberi e si nutrono delle loro foglie, causando dolore alle anime intrappolate in essi. La selva rappresenta il secondo girone del settimo cerchio dell’Inferno, dove sono puniti i violenti contro sé stessi, ovvero i suicidi.​

Durante il loro cammino, Dante, su invito di Virgilio, spezza un ramo da un albero, dal quale fuoriesce sangue scuro e una voce lamentosa. È l’anima di Pier della Vigna, un tempo consigliere fidato dell’imperatore Federico II, che racconta la sua tragica storia: accusato ingiustamente di tradimento e sopraffatto dall’invidia altrui, si tolse la vita. Egli spiega a Dante che le anime dei suicidi sono trasformate in alberi e arbusti, e solo attraverso il dolore possono esprimere la loro sofferenza. Dopo il Giudizio Universale, queste anime riacquisteranno i loro corpi, ma non potranno abitarli; i corpi saranno appesi ai rami degli alberi in cui risiedono le loro anime, aumentando così la loro pena.​

Successivamente, la selva è attraversata da due anime in fuga da cagne infernali: sono gli scialacquatori, coloro che in vita dissiparono le proprie sostanze. Uno di essi si nasconde dietro un cespuglio, ma viene raggiunto e dilaniato dalle furie canine. Il cespuglio, anch’esso un’anima dannata, si lamenta del dolore inflittogli e rivela la sua identità: è un fiorentino che si suicidò impiccandosi nella propria casa.​

I temi principali del canto includono la disperazione che conduce al suicidio, la trasformazione delle anime in piante come punizione per aver rifiutato la propria natura umana, e la presenza delle Arpie come simbolo del tormento perpetuo. La selva dei suicidi rappresenta l’innaturalezza del gesto suicida, un atto contro la propria stessa essenza, che porta a una condizione di sofferenza eterna e mutilazione dell’identità.​

La struttura e l’analisi

Il Canto XIII si sviluppa attraverso una struttura narrativa che alterna descrizioni ambientali, dialoghi e azioni drammatiche, creando un ritmo incalzante e coinvolgente. L’ambientazione nella selva dei suicidi è descritta con toni cupi e angoscianti, enfatizzando l’atmosfera di desolazione e tormento. La presenza delle Arpie, creature mitologiche che infliggono sofferenza alle anime dannate, aggiunge un elemento di orrore e soprannaturalità al contesto.​

La scelta di rappresentare i suicidi come alberi e arbusti è altamente simbolica: avendo rifiutato la propria umanità attraverso il suicidio, queste anime sono private della forma umana e condannate a una condizione vegetativa, incapaci di esprimersi se non attraverso il dolore inflitto loro. Questo contrappasso sottolinea l’idea che il suicidio sia un atto contro natura, che porta a una punizione in cui l’anima perde la propria identità e dignità.​

Il dialogo con Pier della Vigna offre una riflessione sulla fragilità dell’onore e della reputazione, e su come l’invidia e la calunnia possano condurre alla rovina e alla disperazione. La sua storia evidenzia la tragicità di un uomo fedele e leale, travolto da accuse infondate e costretto a togliersi la vita per sfuggire all’ingiustizia. La sua pena nell’Inferno riflette la complessità delle dinamiche di potere e la vulnerabilità dell’individuo di fronte alla malizia altrui.​

L’episodio degli scialacquatori aggiunge una dimensione ulteriore alla rappresentazione della violenza contro sé stessi, mostrando come l’abuso delle proprie risorse e la dissipazione dei beni possano condurre a una punizione feroce e incessante. Le cagne infernali che inseguono e dilaniano queste anime simboleggiano le conseguenze implacabili delle azioni sconsiderate e l’inesorabilità della giustizia divina.​

Le figure retoriche del canto 13

Dante impiega nel Canto XIII una varietà di figure retoriche per arricchire il testo e sottolineare i temi trattati, creando un linguaggio poetico denso e suggestivo. L’uso di metafore è particolarmente significativo: la selva oscura rappresenta la confusione e la perdita di sé che caratterizzano il peccato del suicidio, mentre le Arpie simboleggiano le forze distruttive che tormentano le anime dei dannati. La trasformazione delle anime in alberi è una potente metafora della deumanizzazione conseguente al rifiuto della propria vita.​

Le similitudini sono utilizzate per creare immagini vivide e rafforzare il senso di dolore e oppressione che permea il canto. Un esempio significativo è il paragone tra il suono prodotto dall’albero spezzato e il crepitare di un tizzone ardente: “Sì come d’un stizzo verde ch’arso sia / da l’un de’ capi, che da l’altro geme / e cigola per vento che va via” (vv. 40-42). Questa similitudine enfatizza il dolore delle anime imprigionate negli alberi e la loro condizione di sofferenza perpetua, paragonabile a una fiamma che non si spegne mai.

L’iperbole è un’altra figura retorica utilizzata da Dante per enfatizzare l’orrore della punizione. La descrizione della selva come un luogo privo di sentieri, con rami nodosi e senza fronde, accentua l’atmosfera di desolazione e angoscia. Le Arpie che tormentano gli alberi non solo aggiungono un tocco mitologico alla narrazione, ma rafforzano il senso di sofferenza continua che caratterizza la pena dei suicidi.

La personificazione è evidente nella descrizione delle anime che, trasformate in alberi, acquisiscono la capacità di parlare solo attraverso il dolore. Pier della Vigna, ad esempio, non può esprimersi se non quando il suo tronco viene spezzato, come se la sua voce fosse intrappolata nella materia vegetale. Questo elemento sottolinea il concetto di punizione eterna e la condizione di impossibilità di comunicare se non attraverso la sofferenza.

Un’altra figura retorica importante è l’allegoria, presente nella rappresentazione della selva come simbolo della disperazione umana e della perdita della speranza. Il suicidio è visto come un atto di rifiuto della vita e, di conseguenza, dell’ordine divino; la trasformazione in alberi senza possibilità di movimento diventa una metafora dell’impossibilità di redenzione per coloro che hanno rifiutato la propria esistenza.

Il contrappasso dei suicidi e degli scialacquatori

Il contrappasso che colpisce i suicidi si basa sulla loro scelta di separarsi dal proprio corpo in vita. Per questo motivo, nell’Inferno, vengono privati della loro forma umana e trasformati in alberi, creature immobili e prive di volontà. Non avendo voluto mantenere la propria esistenza, ora sono condannati a un’esistenza mutilata, senza la possibilità di esprimersi se non attraverso il dolore. Il destino che li attende dopo il Giudizio Universale è ancora più terribile: riavranno i loro corpi, ma non potranno mai più abitarli, poiché essi verranno appesi ai rami dei loro stessi alberi, come un eterno monito del rifiuto della vita.

Per quanto riguarda gli scialacquatori, la loro pena è complementare a quella dei suicidi. Se i suicidi hanno distrutto il proprio corpo, gli scialacquatori hanno distrutto i propri beni, dilapidando ogni ricchezza fino alla rovina. La loro punizione consiste nell’essere inseguiti da cagne infernali, che li sbranano incessantemente, proprio come in vita sono stati “dilaniati” dalle loro scelte autodistruttive. Il movimento incessante di queste anime contrasta con la staticità dei suicidi, sottolineando due modalità diverse, ma ugualmente autodistruttive, di esercitare violenza su sé stessi.

Il dramma di Pier della Vigna

Uno degli episodi più toccanti del Canto XIII è l’incontro con Pier della Vigna, un tempo potente consigliere dell’imperatore Federico II, poi caduto in disgrazia a causa dell’invidia e delle accuse di tradimento. Pier racconta la sua vicenda con parole cariche di dolore, lamentando di essere stato vittima di una congiura e di aver scelto il suicidio come unica via di fuga dall’ingiustizia e dall’infamia. Il suo lamento si trasforma in una denuncia della malvagità della corte e della fragilità della condizione umana, dove il successo può trasformarsi in rovina da un momento all’altro.

L’incontro tra Dante e Pier della Vigna non è solo un momento di descrizione della pena infernale, ma anche una riflessione sulla giustizia e sull’onore. Dante non esprime un giudizio netto su Pier, ma lascia trasparire un senso di pietà per la sua sorte. Il poeta sembra suggerire che la condanna del suicidio sia una punizione ineluttabile, ma al tempo stesso mette in evidenza la sofferenza di un uomo che si è trovato in una condizione disperata. Il suicidio di Pier della Vigna diventa così un simbolo della fragilità dell’animo umano e del peso della calunnia nella società medievale.

Simbolismo della selva e delle Arpie

La selva dei suicidi è uno dei luoghi più simbolici dell’Inferno dantesco. Essa rappresenta non solo il tormento delle anime dannate, ma anche il senso di perdita e smarrimento che caratterizza chi cade nella disperazione. Gli alberi nodosi, privi di fronde, evocano un paesaggio sterile e inospitale, un’immagine potente della condizione di chi ha rinunciato alla vita e ora è condannato a un’esistenza di dolore silenzioso.

Le Arpie, creature mitologiche di origine classica, sono un elemento che aggiunge ulteriore angoscia alla scena. Questi esseri, metà donne e metà uccelli, si nutrono delle foglie degli alberi, causando ulteriore sofferenza alle anime dannate. Il loro ruolo non è solo quello di infierire sulle anime, ma anche di rappresentare le forze oscure che conducono alla disperazione. Il loro tormento perpetuo simboleggia il rimorso e la sofferenza interiore che perseguita i suicidi anche nell’aldilà.