Il mito di Mirra e Cirene
L'unione incestuosa che avrebbe generato Adone è descritto in alcune fonti classiche greco-latine e segue lo schema narrativo presente in 'Biblioteca' dello Pseudo-Apollodoro
Chi sono Mirra e Cirene
Secondo quanto narrato in ‘Biblioteca’ da Pseudo-Apollodoro, un antico manuale suddiviso in tre libri e che contiene un’ampia raccolta di leggende tradizionali appartenenti alla mitologia greca e all’epica eroica, Cirene – o Cinira, o Teia – fu un re assiro, mentre sua figlia, Mirra o Smyrna, venne fatta innamorare del padre da Afrodite come forma di punizione per la sua scarsa devozione. Aiutata dalla compiacente nutrice Ippolita, la giovane riuscì a trascorrere dodici notti consecutive di intimità con il sovrano, totalmente ignaro della sua vera identità. L’ultima volta, però, Cirene, bramoso di conoscere il volto della fanciulla, si servì di un lume per guardarla e, scoperto l’inganno, iniziò a rincorrerla minuto di spada al fine di ucciderla. Ella scappò via terrorizzata e durante la sua fuga, quasi raggiunta da Cirene sul ciglio di una collina, implorò gli dei di renderla invisibile e questi, mossi a compassione, decisero di trasformarla nel profumatissimo albero, per l’appunto, di mirra. Dopo nove mesi dagli avvenimenti appena narrati, il fusto della pianta si spaccò e dal suo interno venne alla luce un neonato bellissimo di nome Adone. Lo scrittore e bibliotecario romano Gaio Giulio Igino arricchì la storia con due varianti. Nella prima, a scatenare l’ira di Afrodite fu l’hybris (ὕβρις) della madre Cencreide, la quale affermò che sua figlia Mirra fosse più bella della dea e la fanciulla, estremamente scossa da questo «amore mostruoso», tentò invano il suicidio, salvata dalla nutrice. Nella seconda, invece, proprio grazie a Ippolita, Mirra – dopo aver giaciuto con Girene – si accorse di essere rimasta incinta e, «spinta dal pudore», scappò nel bosco. Qui, fu Afrodite, impietosita, a trasformarla in un albero di mirra, ma sarà proprio suo figlio a chiudere il ciclo della colpa, «facendo scontare ad Afrodite le sofferenze della madre». Infatti, la fiaba di Igino termina proprio con una dea disperata per la morte dell’uomo di cui era perdutamente innamorata: il giovane Adone.
Mirra e Cirene ne ‘Le Metamorfosi’ di Ovidio
In una sezione del decimo libro de ‘Le Metamorfosi’, Ovidio, rispettando lo schema dello Pseudo-Apollodoro e le varianti di Igino, offrì una narrazione ancor più particolareggiata. Cirene, ivi chiamato Cynira, è rappresentato un cipriota nativo di Pafo che, «se fosse rimasto senza prole, si sarebbe potuto annoverare fra le persone felici» e i fatti si svolgono a Pancaia (Panchaea), una meravigliosa isola sulla costa dell’odierna Arabia Saudita. Prima di passare al racconto vero e proprio, l’autore volle inserire una personale raccomandazione nei confronti del lettore sull’empietà di quanto si accingeva a leggere, sottolineando come, fortunatamente, il tutto accadde in una terra assai remota. Venne descritto accuratamente il crescente tormento interiore di Mirra, provocato da un amore tanto intenso quanto impuro. Per porre fine a tale, ingestibile angoscia, la giovane tentò il suicidio impiccandosi, venendo tuttavia tratta in salvo in extremis dall’anziana nutrice alla quale, dopo numerose, insistenti suppliche, rivelò il proprio straziante sentimento nei confronti del padre. La balia, quindi, dopo aver giurato di aiutarla, le propose di sostituirsi alla madre nel letto di Cynira. Del resto, Cencreide, partecipando ai misteri in onore della dea Cerere, che veniva festeggiata proprio in quel periodo dell’anno, fece voto di astenersi dai rapporti sessuali. In un certo senso, fu lo stesso Cynira ad ordinare che la figlia venisse portata nel suo talamo: egli, infatti, era stato informato da Ippolita che una bellissima vergine «dell’età di Mirra» spasimasse per lui. Mirra, combattuta fra rimorso e desiderio, si intrattenne con il padre per diverse notti, fin quando Cynira, ormai impaziente di conoscere l’identità della fanciulla, si servì di un lume per guardarla in volto, scoprendo l’arcano. Irato, tentò di ucciderla, ma ella, già gravida, abbandonò la Pancaia: la sua fuga coprì l’intero periodo della gravidanza e, ormai prossima al parto, giunse nella lontana terra di Saba. Ormai stremata, la ragazza confessò agli dei la propria colpa e chiese loro di essere bandita sia dal mondo dei vivi che da quello dei morti. Questi, però, ascoltando la sua preghiera e il suo pianto disperato, decisero di trasformarla in un albero, le cui profumatissime gocce di resina ricordavano le amare lacrime da lei versate. La storia di Ovidio si conclude con la nascita di Adone, «creatura mal concepita cresciuta sotto il legno»: il giovane, tuttavia, stentò a farsi spazio all’interno della ‘prigione arborea’ in cui si era tramutata la madre, priva della voce necessaria per invocare Giunone Lucina. La dea, ad ogni modo, provando pietà per la giovane madre, accorse sul luogo, pose le sue mani sulla corteccia e pronunciò la formula del parto, aprendo così un varco dal quale uscì un bellissimo neonato, di cui si presero immediatamente cura le Naiadi, che lo unsero con le lacrime della madre.