Don Lorenzo Milani, all’anagrafe Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, nasce a Firenze il 27 gennaio del 1923. Ha origini borghesi, è figlio di Alice Weiss, israelita, e di Albano Milani. Gli studi del religioso vengono influenzati dal trasferimento a Milano all’età di 7 anni. È nel capoluogo lombardo che consegue la maturità classica.
Nel 1941 decide di assecondare le sue passioni artistiche, si dedica alla pittura e si iscrive all’Accademia di Brera. Soltanto un anno dopo, però, a causa della guerra la famiglia Milani è costretta a tornare a Firenze. Nonostante ciò continua lo studio e la pittura sacra lo spinge ad approfondire la conoscenza del Vangelo. È l’incontro con Don Raffaello Bensi a rappresentare una volta: diventa il suo direttore spirituale.
Nel 1943 Don Lorenzo Milani entra in Seminario Maggiore e quattro anni dopo viene ordinato prete. Successivamente viene mandato, per qualche mese, a Montespertoli per aiutare Don Bonanni. Il suo primo vero incarico è a San Donato di Calenzano, come cappellano del vecchio proposto don Pugi. Lì fonda una scuola popolare serale, pensata per i giovani contadini e per gli operai che frequentano la sua parrocchia. Di fatto diventa anche docente. Nel 1954 viene nominato priore di Barbiana, una piccola parrocchia di montagna, e replica lo stesso progetto. Lo amplia con un doposcuola pomeridiano per i bambini delle elementari.
La sua attenzione all’istruzione e alla cultura, come armi per avere un pensiero critico, segna tutta la sua vita e lo spinge a diventare scrittore. Nel 1958 pubblica Esperienze pastorali, che però viene ritirato dopo pochi mesi dal commercio perché ritenuta una lettura “inopportuna” dal Sant’Uffizio.
Nel 1965, scrive una lettera aperta a un gruppo di cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”. La lettera viene incriminata e Don Lorenzo Milani accusato di apologia di reato. Non potendosi presentare a processo a causa della sua malattia, invia un’autodifesa scritta. Viene assolto in prima istanza, ma in appello – dopo la sua morte – viene condannato. Nel 1966, insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana, inizia la stesura di Lettera a una professoressa, ma non riesce a finirla. Muore a Firenze l’anno dopo, il 26 giugno del 1967, a soli 44 anni.
A dare una forza fuori dal comune al presbitero è una fede profonda, un senso di giustizia radicato e la capacità di pensare con la propria testa, contestando anche la Chiesa – se necessario – e dando priorità a quelli che molti consideravano gli ultimi della società. La sua vocazione incrollabile viene testimoniata da questo suo pensiero: “Neanche un attimo della mia vita da che son cristiano (venti anni) l’ho perso a desiderare una famiglia mia con cui sfogare il dispiacere dell’apostolato, o del cozzare degli ideali contro il muro della realtà”.
Un educatore cattolico con un profondo amore per la cultura, che ha un fine sociale e religioso: “È tanto difficile che uno cerchi Dio se non ha sete di conoscere. Quando con la scuola avremo risvegliato nei nostri giovani operai e contadini quella sete sopra ogni altra sete e passione umana, per portarli poi a porsi il problema religioso sarà un giochetto. Saranno simili a noi, potranno vibrare di tutto ciò che fa noi vibrare. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare che quel che si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza neanche cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello d’uomo cioè a dir poco un livello di Parola e non di gioco”.