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S. Agostino: fede e ragione, la teodicea

Con il suo pensiero d’avanguardia, il teologo berbero anticipa di secoli molti studi filosofici successivi

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Aureliano Agostino nasce a Tagaste, Africa Romana, nel 354 d.C. da Patrizio, di religione pagana, e Monica di fede cristiana. Di etnia berbera, ma culturalmente legato alla scuola ellenistico-romana, nella sua giovinezza si occupa di studiare grammatica e retorica, approcciandosi alla filosofia dopo la lettura dell’Ortensio di Cicerone. Inizialmente si avvicina ai Manichei, ma successivamente si interroga sulla loro filosofia, arrivando ad abiurarla in seguito allo studio delle parole del Vescovo di Milano Ambrogio. Si trasferisce a Roma e scopre gli scritti di Plotino, tradotti da Vittorino, dai quali desume l’idea dell’incorruttibilità e incorporeità di Dio. Battezzato proprio da Sant’Ambrogio, riceve l’incarico di Vescovo di Ippona, prima di morire nel 430.

Che Sant’Agostino sia stato uomo di avanguardia appare evidente dallo studio delle sue considerazioni in merito al rapporto tra fede e ragione umana e dal fatto che i suoi testi, dalle Confessioni a La città di Dio, abbiano anticipato di secoli molti studi filosofici successivi. Secondo il pensiero del teologo, infatti, le Sacre Scritture sono spesso caratterizzate da un linguaggio ambiguo, per interpretare nella maniera migliore il quale, l’uomo ha bisogno tanto della fede che della ragione. Queste infatti non dovrebbero mai essere messe in contrapposizione, bensì considerate come due potenzialità da utilizzare per comprendere metafore e immagini bibliche, imperscrutabili senza l’una e irraggiungibili senza l’altra.

Collaborazione tra fede e ragione

Esistono circostanze in cui si rende necessario lasciare “campo libero” alla ragione, affinché possa indagare per lasciare poi alla fede il compito di analizzare quanto scoperto. Se la ragione umana può spingersi ovunque, infatti, non aiuta però a comprendere in che direzione, ed è lì che entra in gioco la fede, per guidare l’animo umano a prendere in ogni circostanza le decisioni più giuste.

Per spiegarsi meglio, Sant’Agostino utilizza l’esempio dei testi pagani antecedenti al cristianesimo, sottolineandone la validità, soprattutto se analizzati insieme alla loro dottrina in un’ottica cristiana. In pratica, la fede non tradirà la propria natura lasciandosi contaminare dalla razionalità, dalla quale invece trarrà nuova linfa attraverso ogni tipo di conoscenza che le verrà fornito.

In pratica, fede e ragione non sono in alcun modo subordinabili l’una all’altra, perché senza ragione non conosceremmo neanche il significato di “credere in Dio”, ma senza la fede sarebbe impossibile per la ragione umana trovare un metodo per scegliere la strada da percorrere.

Non si tratta di rigettare la fede, ma di percepire con la luce della ragione le verità che già credi con la ferma fede”.

Teodicea agostiniana

La teodicea agostiniana si prefigge lo scopo di spiegare l’esistenza di un Dio infinitamente buono e onnipotente, in contrasto con la presenza del male nel mondo, respingendo però l’idea che il male esista in sé e giustificandolo come una punizione per il peccato e la sua continua perseveranza da parte degli uomini a causa dell’abuso del libero arbitrio. La bontà e la benevolenza di Dio, secondo la teodicea agostiniana, rimangono comunque perfette, senza che egli abbia responsabilità per il male o per la sofferenza.

Tutti concetti successivamente ripresi sia da Tommaso d’Aquino, che propose una teodicea simile basata sulla considerazione che l’esistenza del bene permettesse al male di esistere per colpa degli esseri umani, sia Giovanni Calvino, secondo il quale il male è il risultato del libero arbitrio, che il peccato corrompe l’uomo e che è necessaria la grazia di Dio per poter usufruire di una guida morale.

Tra i critici più convinti della teodicea di Agostino, vi furono Fortunato, un sacerdote manicheo che sosteneva che Dio doveva essere implicato nel male, e il teologo settecentesco Francesco Antonio Zaccaria, poiché il concetto agostiniano del male non contemplava la sofferenza umana.

John Hick, invece, presentò una teodicea alternativa dove il male era considerato come necessario per lo sviluppo degli esseri umani, mentre per i teologi del processo Dio non è onnipotente e quindi non può essere responsabile per il male. L’esistenza di Dio e la presenza del male nel mondo non sono dunque in logica contraddizione.