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Le città invisibili di Italo Calvino

Ogni dimensione dell’esistenza può acquisire figura di città: è partendo da questa convinzione che l’autore produce la più surrealista delle sue opere

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Spesso le storie di Italo Calvino hanno avuto un’ambientazione urbana. La città vista come realtà e simbolo può infatti essere considerata uno dei punti cardine della narrativa calviniana. Dai racconti che hanno per oggetto la sua originaria Sanremo, come Il sentiero, L’entrata in guerra o La speculazione edilizia, a quelli palesemente ispirati a Torino, come La nuvola di smog, piuttosto che il frammento La speculazione edilizia, passando per una riconoscibile New York, ad esempio in Ti con zero.

Non solo, perché le città descritte da Calvino sono anche le città dentro le città, quella del cottolengo nel Lo Scrutatore, dove sofferenza e degrado si alternano ad attimi di convivenza operosa, o le visioni marcovaldesche de La città tutta per lui, nella quale il protagonista cerca sotto la città di vernice, catrame, vetro e intonaco per trovare la “città di cortecce e squame e grumi e nervature”, o de Il giardino dei gatti ostinati, in cui la città dei felini si cela nelle pieghe della città degli umani.

Non può dunque stupire che un Calvino, convinto che ogni dimensione dell’esistenza possa acquisire figura di città, decida di dedicare a questo suo concetto un’intera opera, che finirà per essere tra le più citate e celebrate della sua produzione, anche al di fuori dell’ambito letterario, ad esempio nella cerchia di architetti, urbanisti e semiologi.

Il libro

Le città invisibili è una raccolta di racconti con cornice. La cornice è quella dei dialoghi fra Marco Polo e Kublai Kan, che chiede al mercante veneziano di narrargli dei viaggi attraverso il suo immenso impero, e che chiudono ognuno dei nove capitoli che costituiscono il libro, la cui struttura è però a ben vedere molto più complessa. Calvino scrive infatti questa opera in una fase particolare del suo percorso letterario, orientata nei primi anni ’70 allo strutturalismo ed alla semiotica, momento che verrà definito “combinatorio”. Così, l’autore la suddivide ulteriormente, seguendo uno schema che ricorda una scacchiera sghemba, realizzando “una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate”. Ogni capitolo, allora, è suddiviso in cinque descrizioni di città visitate da Marco Polo, eccezion fatta per il primo e per l’ultimo, che ne contengono dieci. A loro volta, le cinquantacinque città descritte, sono distribuite su undici rubriche:

  1. Le città e la memoria,
  2. Le città e il desiderio,
  3. Le città e i segni,
  4. Le città sottili,
  5. Le città e gli scambi,
  6. Le città e gli occhi,
  7. Le città e il nome,
  8. Le città e i morti,
  9. Le città e il cielo,
  10. Le città continue,
  11. Le città nascoste.

Questi brani si avvicendano di continuo, senza seguire una gerarchia o una sequenzialità, ma lasciando spazio al lettore di entrare ed uscire a piacimento dalle diverse sezioni, senza perdere il senso del romanzo. È questo il frutto dello sperimentalismo di Calvino, che gioca con la scrittura, concependo il libro come un sistema da smontare e ricostruire a piacimento.

Città al femminile

Ogni città è contraddistinta da un nome femminile, insolito e prezioso, di derivazione classicheggiante, come Dorotea, Isaura, Melania, Despina, Ipazia, Zenobia o Raissa, e inizialmente ad esse sono associate atmosfere esotiche e tipicamente orientali.

Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre

Presto però la narrazione, intrecciando presente e passato, abbandona le ambientazioni più soavi, per lasciare spazio ad immagini di modernità, che descrivono l’incedere della realtà metropolitana.

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito”.

Così si passa da Armilla, composta solo di impianti idraulici, e da Ottavia, “città ragnatela”, sospesa su di un precipizio grazie a funi e passerelle, a paesaggi come Leonia, che per apparire ogni giorno rinnovata, accumula attorno alle sue mura una sterminata discarica, o come Perinzia, progettata per riprodurre l’armonia del firmamento ed invece popolata solamente da storpi, nani, obesi e donne con la barba.

Ci sono poi le città nelle città, doppie e triple, come le speculari Valdrada, che si confronta con la propria immagine riflessa in un lago, Eusapia, e Laudomia, la gemella necropoli, che alle città dei vivi e dei morti affianca quella dei non nati.

Come lo stesso Calvino ebbe modo di rivelare, l’impressione del lettore conferma quel che è realmente accaduto, perché la descrizione delle città nasce in realtà come una serie di pezzi isolati, “come poesie che mettevo sulla carta”.

L’invisibilità

L’“invisibilità” predicata sin dal titolo può essere intesa in modi diversi. Le città descritte da Marco Polo possono essere invisibili perché immaginarie, raccontate e non viste direttamente, come nel caso di Bauci, terza delle città sottili, sospesa su trampoli sopra le nubi. o semplicemente perché sono l’opposto di quello che sembrano, perché una città non è solo quello che si vede, ma anche ciò che essa si accinge a divenire, come nel caso di Berenice, città ingiusta che contiene i germi di una città giusta, insidiata a sua volta dall’ingiustizia, che però non è altro che l’involucro di una nuova città giusta.

È allora proprio nelle intenzioni dell’autore fare di questa opera una sorta di esperimento surrealista, in cui l’ambiguità e la sospensione della certezza diventano l’elemento fondante del romanzo. Non sempre, infatti, i racconti di Marco Paolo restituiscono una di quelle vivide descrizioni che si imprimono nella memoria, anzi, sono più numerosi quelle frammentate, quasi stentate, che sottolineano i problemi di comunicazione tra il viaggiatore veneziano, ancora non in grado di parlare le lingue dell’Oriente, e Kublai Khan.

Le cornici che si susseguono capitolo dopo capitolo, con i dialoghi tra Marco Polo e Kublai Khan, sono in definitiva un insieme di domande senza mai una risposta, di pensieri apparentemente senza filo logico. Per questo il lettore si sente inizialmente spaesato, ma poi si ritrova, grazie ad una scrittura efficace, che conferisce al tutto una parvenza di coerenza.

All’interno di questa sospensione delle certezze, che compone la cornice, c’è poi la tela, rappresentata da città che non sappiamo neanche se esistano, che non sono mai definite, ma “invisibili”, caratterizzate solamente da aneddoti e stati d’animo, che dicono tutto e niente. Non c’è nulla di certo, perché permane il dubbio se il viaggio sia vero o il frutto di un sogno. È proprio questa la letteratura combinatoria cui Calvino aspirava con la sua opera, che lascia al lettore la libertà di smontare e rimontare, giudicare, selezionare e riconoscere.

POLO: Forse questo giardino affaccia le sue terrazze solo sul lago della nostra mente…
KUBLAI: …e per lontano che ci portino le nostre travagliate imprese di condottieri e di mercanti, entrambi custodiamo dentro di noi quest’ombra silenziosa, questa conversazione pausata, questa sera sempre eguale.
POLO: A meno che non si dia l’ipotesi opposta: che quelli che s’arrabattano negli accampamenti e nei porti esistano solo perché li pensiamo noi due, chiusi tra queste siepi di bambù, immobili da sempre.
KUBLAI: Che non esistano la fatica, gli urli, le piaghe, il puzzo, ma solo questa pianta d’azalea.
POLO: Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini, le cuoche che puliscono le interiora dei polli, le lavandaie chine sulla pietra, le madri di famiglia che rimestano il riso allattando i neonati, esistano solo perché noi li pensiamo.
KUBLAI: A dire il vero, io non li penso mai.
POLO: Allora non esistono.
KUBLAI: – Questa non mi pare una congettura che ci convenga. Senza di loro mai potremmo restare a dondolarci imbozzoliti nelle nostre amache.
POLO: L’ipotesi è da escludere, allora. Dunque sarà vera l’altra: che ci siano loro e non noi
”.

Citazione fotografica

Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura.
D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda