Salta al contenuto

Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari: analisi e commento

Profondamente autobiografica, è tra le poesie meno conosciute del poeta siciliano, ma ne rappresenta mirabilmente la vena malinconica e struggente

Marco Netri

Marco Netri

GIORNALISTA E IMPRENDITORE

Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e ne ho fatto il mio lavoro. Dopo la laurea in Scienze Politiche e il Master in Giornalismo conseguiti alla Luiss, ho associato la passione per la scrittura a quello per lo studio dedicandomi per anni al lavoro di ricercatore. Oggi sono imprenditore di me stesso.

Nei pressi di Messina, su un promontorio scosceso, che pare sospeso sul mare delle isole Lipari, sorge Tindari, luogo del cuore dell’infanzia di Salvatore Quasimodo.Vento a Tindari”, tra le poesie meno note dell’autore siciliano, è allora il ricordo da lui dedicato a una terra lontana, ma immortale nella memoria, una reminiscenza nella quale smarrirsi, per approdare ad una profonda riflessione sulla condizione umana.

Inserita nella raccolta Acque e Terre, è la struggente testimonianza del rimpianto, che affiora da un ricordo felice, per una vita ormai passata e definitivamente perduta.

La poesia

Tindari, mite ti so

Fra larghi colli pensile sull’acque

Delle isole dolci del dio,

oggi m’assali

e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,

assorto al vento dei pini,

e la brigata che lieve m’accompagna

s’allontana nell’aria,

onda di suoni e amore,

e tu mi prendi

da cui male mi trassi

e paure d’ombre e di silenzi,

rifugi di dolcezze un tempo assidue

e morte d’anima

A te ignota è la terra

Ove ogni giorno affondo

E segrete sillabe nutro:

altra luce ti sfoglia sopra i vetri

nella veste notturna,

e gioia non mia riposa

sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza,

tacito passo al buio

dove mi hai posto

amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;

soave amico mi desta

che mi sporga nel cielo da una rupe

e io fingo timore a chi non sa

che vento profondo m’ha cercato.

Analisi

L’intento evocativo di Quasimodo si manifesta sin dall’incipit del componimento, che si apre con “Tindari” per identificare subito il soggetto destinatario di una lirica che non sarà meramente descrittiva del luogo, ma che il luogo stesso andrà ad umanizzare, in quanto scrigno della sua infanzia.

In “Vento a Tindari”, infatti, il poeta trascende il ricordo fotografico del territorio, sorvolando sul suo aspetto esteriore e lambendone il paesaggio, per affondare in uno stato della memoria più sensoriale, nel quale la città assume le sembianze di una persona, un’amorevole madre che lo ha portato in grembo, cui dedicare parole di puro amore e riconoscenza.

Il cuore dell’autore è sopraffatto dal ricordo, che si espande fino ad assumere i contorni di una dimensione mistica, nella quale la terra natia si confonde con il mito di un Dio, che potrebbe anche essere Eolo, il signore del vento che dà il nome all’arcipelago delle Eolie.

Spontaneo sorge allora il confronto tra l’inospitale città in cui è stato suo malgrado costretto ad emigrare, Milano, e una Sicilia, che ormai non sente più sua. Una riflessione tormentata e sottolineata da un lessico in cui a dominare sono un misto di tristezza e malinconia, testimoniato da un susseguirsi di “male”, “paure”, “ombre”, “silenzi”, “morte”, “ansia”, “buio”.

Uno stato di ansiogena trance, dal quale il poeta esce solamente grazie all’intervento di un amico, al quale mente, attribuendo alle vertigini il suo momentaneo smarrimento e non al vento dei ricordi e del rimpianto, che lo ha rapito e riportato a un tempo passato che non tornerà più.

Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera: analisi e commento

Commento

In “Vento a Tindari” tutto contribuisce a porre in risalto il contrasto tra la dolcezza delle sensazioni suscitate dal ricordo del luogo del cuore del poeta bambino e l’opprimente malinconia che caratterizza lo stato d’animo del poeta ormai grande, prigioniero del rimpianto per l’aver dovuto lasciare la sua terra e trasferirsi in un luogo che uccide la sua anima.

Il ricordo non affiora, ma si materializza improvviso e violento nella mente di Quasimodo, sorprendendolo durante un’escursione in compagnia di amici sulle montagne del Nord Italia e travolgendolo senza possibilità di scampo. Così a farsi strada è il rimpianto per quel luogo in cui aveva vissuto momenti sereni, dolce rifugio della memoria, che si ritrova contrapposto al vuoto che prova nell’anima, nel penoso esilio di una Milano, luogo di perdita e di un’esistenza tormentata, rappresentata dalla metafora “amaro pane a rompere”.

Immerso nelle sue malinconiche riflessioni, il poeta vive, avvicinandosi troppo al dirupo, che nella sua visione onirica è l’amata Tindari, una tentazione di morte, dalla quale lo strappa il richiamo del “soave amico”, che lo risveglia bruscamente, tanto dal portarlo a mentire, fingendo di essere stato intimorito dalla vertigine, anziché rapito da quel vento carico di ricordi, che lo ha squassato nel profondo, trascinandolo in un luogo dello spirito che tutti serbiamo dentro di noi, tenendolo celato agli altri.