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Sei personaggi in cerca d'autore, trama e spiegazione dell'opera

Il dramma più famoso di Luigi Pirandello è considerato anche il primo esempio di una trilogia nel metateatro, completata poi da "Ciascuno a suo modo" e "Questa sera si recita a soggetto"

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

Il debutto ufficiale di “Sei personaggi in cerca d’autore” – al teatro Valle di Roma il 9 maggio 1921 – venne descritto come “un successo tra vivissimi contrasti“: in effetti, si sfiorò addirittura lo scontro fisico tra ammiratori e detrattori di Luigi Pirandello. Il drammaturgo futuro premio Nobel per la letteratura, poi, quattro anni più tardi aggiunse all’opera una prefazione finalizzata a chiarirne la genesi e le tematiche fondamentali.

Sei personaggi in cerca d’autore, la trama

“Sei personaggi in cerca d’autore” si apre con un palcoscenico in corso di allestimento in vista delle prove di un’altra opera teatrale di Pirandello: “Il giuoco delle parti”. A questo punto, mentre attori e membri della compagnia ripassano le proprie battute, l’usciere presenta al capocomico sei persone, dall’aria smarrita e perplessa, che dichiarano di essere dei personaggi creati da un autore che poi ha deciso di rinunciare alla stesura del dramma. Nel fastidio generale per la visita inattesa e per la brusca interruzione delle prove, questi chiedono al capocomico di vestire i panni dell’ideatore del dramma, che si offrono di raccontare, in maniera confusa e tutt’altro che lineare. Il Padre ha da poco cacciato di casa la moglie, personaggio chiamato la Madre, per permetterle di rifarsi una vita con il segretario che viveva a casa loro. Contestualmente, il Figlio, il bambino avuto con lei e mandato in balia in campagna, ha fatto ritorno a casa, ma il loro rapporto appare compromesso da anni di distanza. C’è poi la Figliastra, nata dalla relazione tra la Madre e il nuovo compagno, che il Padre non perde mai di vista, al punto da andare sovente a vederla uscire dall’asilo ed avvicinandola una volta per darle un regalo. La piccola racconta tutto a casa e la Madre, spaventata, la tiene lontana dalla scuola per un po’ di tempo. Nel frattempo, però, il segretario trova lavoro in un altro paese e così il Padre perde di vista la nuova famiglia dell’ex moglie fino a quando, a due mesi dall’inizio della trama vera e propria, il nuovo compagno della Madre muore. Quest’ultima, insieme alla Figliastra e agli altri due ragazzini avuti dall’uomo appena scomparso, il Giovinetto e la Bambina, è costretta a tornare in patria. Qui, la Madre e la Figliastra, di rara bellezza, trovano un impiego presso un atelier gestito da Madama Pace, che obbliga la seconda a intrattenersi con dei clienti con la scusa di ‘rimediare’ a degli errori commessi sul lavoro dalla prima. La giovane, però, un giorno si trova di fronte il Padre, che non l’aveva riconosciuta e, proprio quando il rapporto stava per essere consumato, entra nella stanza la Madre che, urlando, interrompe i due in modo provvidenziale. Il Padre, sconvolto dalla vicenda e dalla loro situazione, accoglie tutta la famiglia in casa, scontentando però il Figlio, che si sente un estraneo con tutti gli altri personaggi. Il capocomico, colpito dalla storia, accetta di rappresentarla, partendo proprio dall’incontro tra il Padre e la Figliastra nel retrobottega dell’atelier, ma la ragazza si oppone, pretendendo una scena identica al luogo descritto. Così, il Padre ricrea la location originale mediante l’utilizzo dei cappelli e dei cappotti degli attori, ma così facendo ‘attira’ sul palco Madama Pace, che fa fuggire via tutti terrorizzati. Rimane solo la Figliastra e, in una grottesca conversazione per metà in italiano e per metà in spagnolo, l’orribile megera – vestita in maniera esageratamente sgargiante – annuncia alla ragazza l’arrivo di un nuovo cliente: il Padre. La scena viene interrotta brevemente dalla Madre, che aggredisce Madama Pace, quindi il capocomico insiste affinché venga provata la parte tra il Padre e la Figliastra: gli attori recitano, ma vengono continuamente interrotti dai due personaggi originali, che non riescono a rispecchiarsi nella rappresentazione e criticano aspramente tanto la scenografia, quanto i dialoghi. Segue poi il momento in cui la Madre interrompe in extremis i due e il capocomico, estasiato dall’urlo emesso dalla donna, urla più volte “Sipario!” per indicare l’ottima riuscita. Il macchinista, però, intende male e abbassa materialmente il drappo, interrompendo così sia il vero spettacolo, che quello finto. Una volta ritirato su, viene provata la scena seguente: il Figlio, che sin dall’inizio si era rifiutato di partecipare, è al contrario costretto a recitare, in quanto legato agli altri personaggi. Per evitare di parlare con la Madre, esce in giardino, dove vede prima la Bambina affogata nella vasca e poi il Giovinetto con gli occhi da pazzo e una rivoltella in tasca. La Figliastra, nel frattempo, si accascia vicino al corpo inerme della sorellina e scoppia a piangere. Il Figlio e la Madre corrono verso il Giovinetto, ma prima che essi lo raggiungano, si spara, mentre la donna si lascia andare a un nuovo urlo disperato. Il ragazzo viene portato via in barella, mentre tutti si domandano se la morte sia vera o meno, il Padre – anche lui gridando – annuncia che non si è trattata di finzione. Il capocomico, irato per la giornata di lavoro persa, ordina al macchinista di spegnere le luci, quindi di riaccendergliene almeno una al fine di lasciare il palco. Si illumina, però, di verde la zona dietro il fondo, che proietta le ombre del Padre, della Madre, del Figlio e della Figliastra e che fanno scappare terrorizzato il capocomico. Il riflettore viene spento ed escono prima il Figlio e la Madre, con le braccia protese in avanti come per afferrarlo, poi il Padre e, infine, la Figliastra che, ripetendo la sua perdizione, corre verso le scalette e, dopo essersi fermata per tre volte, ridendo altrettante sguaiatamente nella direzione degli altri personaggi, scompare definitivamente dalla scena.

Sei personaggi in cerca d’autore, la spiegazione

I sei personaggi protagonisti dell’opera acquisiscono man mano una propria autonomia e ognuno oppone all’altro il proprio frammento di verità. Una verità che, però, è superiore a quella umana, in quanto se, secondo Pirandello, l’uomo ha molteplici maschere, i personaggi indossano soltanto la propria, rimanendo dunque immutabili. Da qui scaturisce la “teoria dell’autonomia dei personaggi”, secondo cui questi vengono prima creati dall’autore, che li fa vivere in eterno per poi essere lasciati liberi di diventare caratteri vivi, maschere definite dalla loro vita, dai loro tratti essenziali. Per Pirandello è prioritaria la costruzione dei personaggi su quella dell’intreccio, perché una volta data vita ad essi le vicende nascono da sé. È l’esatto opposto dei grandi classici, su tutti quelli di Omero, dove il personaggio di turno è vittima della società a cui appartiene (la “civiltà della vergogna”) ed è succube di valori imprescindibili, e quindi deve adattarsi ad una storia provvidenzialmente stabilita, nella quale non fa assolutamente nulla per cercare di cambiare il proprio destino. La stessa rassegnazione, invece, non è presente nei personaggi pirandelliani, poiché sono loro, se non proprio a creare, quantomeno ad influenzare l’intreccio. La sconfitta, tuttavia, aleggia anche nei drammi del drammaturgo agrigentino poiché, sebbene i personaggi lottino per la propria realizzazione, la loro maschera li conduce sempre al disfacimento. È il caso, ad esempio, della Bambina che annega nella vasca del giardino o del Giovinetto suicidatosi. Del resto, come afferma lo stesso Pirandello, “l’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più… chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure, vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità!“.