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Ipponatte: il poeta beffardo dell'antica Grecia

La sua poesia, satirica e derisoria, era caratterizzata da un linguaggio colorito ed estroso, talvolta osceno e volgare

Silvia Pino

Silvia Pino

GIORNALISTA PUBBLICISTA

Ho iniziato con le lingue straniere, ho continuato con la traduzione e poi con l’editoria. Sono stata catturata dalla critica del testo perché stregata dalle parole, dalla comunicazione per pura casualità. Leggo, indago e amo i giochi di parole. Poiché non era abbastanza ho iniziato a scrivere e non mi sono più fermata.

Chi era Ipponatte

Delle origini di Ipponatte, più raramente chiamato Ipponasso, si sa poco. Le testimonianze biografiche, infatti, sono estremamente incerte e se Girolamo, seguendo una tradizione eusebiana, lo colloca erroneamente nella prima metà del VII secolo a.C., l’iscrizione greca ‘Marmor Parium’ e gli autori definiti ‘Pseudo-Plutarco’ del ‘De Musica’ ritengono – in maniera più plausibile – che possa essere nato ad Efeso circa un secolo dopo, intorno al 540 a.C. A supporto di questa tesi, poi, ci sarebbero alcuni frammenti di un’opera dello stesso poeta, in uno dei quali fa la parodia di Mimnermo, mentre in altri due cita Gige e Biante. La leggenda narra che Ipponatte trascorse la propria vita in condizioni miserabili, tuttavia, si ritiene assai più probabile che provenisse da una famiglia particolarmente agiata e che trattasse i temi della miseria al fine di dar voce alle collettività meno abbienti della società greca del tempo. Anzi, quasi certamente, le sue origini furono aristocratiche, una teoria supportata dal suo stesso nome, formato dagli appellativi ππό-, hippo” (“cavallo”) e “-αναξ, anax” (“signore”), vale a dire ‘signore dei cavalli’. Inoltre, Ipponatte venne coinvolto nelle lotte politiche che sconvolsero in questo periodo numerose poleis e proprio per questo i tiranni Atenagora e Coma lo esiliarono dalla sua città natale. Trovò riparo a Clazomene (presso Smirne), una colonia ionica dell’Asia Minore prevalentemente commerciale, dove condusse un’esistenza in condizioni sicuramente meno agiate rispetto alla prima fase della sua vita. Si narra, poi, che la sua personalità e il suo carattere fossero stati fortemente condizionati dal suo aspetto fisico, in quanto gobbo e dal volto deforme, una situazione che lo costrinse a subire le angherie da parte di Atenide e Bupalo, due fratelli scultori originari di Chio, rei di averlo scolpito in modo fin troppo realistico e, pertanto, piuttosto offensivo. La vendetta di Ipponatte fu servita a ‘colpi’ di giambi e invettive pubbliche, talmente violenti e feroci, che non trovarono una soluzione migliore al suicidio per impiccagione. Secondo altri storici, infine, il poeta e Bupalo sarebbero stati anche rivali in ‘amore’, in particolare per quel che concerneva le attenzioni di Arete, una donna – si dice – di facili costumi.

La poesia di Ipponatte

Con tutta probabilità, Ipponatte scrisse diverse opere divise in due libri, tuttavia quel che ne rimane sono circa un centinaio di frammenti. L’autore passò alla storia per il carattere scommatico o scoptico – vale a dire satirico e violentemente derisorio – della sua poesia che, come per Archiloco, aveva carattere personale, seppur più triviale e diretta. Il poeta si rappresentò spesso come un miserabile, enfatizzando la sua povertà e la sua rabbia con un piglio particolarmente aggressivo, un modus operandi tipico del genere giambico, al pari dell’invettiva, rivolta spesso contro gli dèi e in particolar modo contro Pluto, il signore del denaro, affinché si decidesse a donargli un manto contro il freddo. Il linguaggio utilizzato da Ipponatte, denso di espressioni popolari miste a barbarismi e neologismi coniati riadattando parole prese dalle lingue frigia e lidia, è estremamente colorito, virulento ed estroso, in grado di rispecchiare la sua stessa attitudine, al punto che sarà assunto come un vero e proprio emblema dai poeti alessandrini dell’Età ellenistica per parlare della quotidianità e, soprattutto, di temi osceni. È bene ribadire, tuttavia, che questi elementi ‘popolari’, esattamente come i contenuti ritenuti più ‘volgari’, devono essere inevitabilmente ricondotti al genere giambico, che impone norme e ruoli ben definiti (nel suo caso, quello dell’indigente, perennemente affamato e infreddolito). Si tratta, in altre parole, di una ‘maschera’ indossata al fine di assumere i panni del poeta pitocco ma che, analogamente a quanto avvenuto con Archiloco, non deve essere considerata come un riconoscimento dell’io mimetico-drammatico. Al tempo stesso, in molti frammenti delle opere di Ipponatte, egli si presentò come un artista dalla narrativa lubrica, priva del senso del pudore e votata all’oscenità spregiudicata. Inoltre, molto presente nella sua lirica, come in tanti altri autori della Grecia antica, è anche il riuso del formulario epico, anche se, già a partire dai suoi stessi contemporanei, grazie alla finzione plebeo-satirica e al ‘lusus’ (letteralmente, “scherzo della natura”), venne considerato l’inventore del genere della parodia letteraria. Infine, a Ipponatte è attribuita una fondamentale riforma metrica, in quanto si ritiene sia stato il primo autore a modificare il trimetro giambico in coliambo o scazonte, cioè un trimetro zoppo che conferisce un’aritmia asimmetrica che ben si adatta alla satira (in sostanza, al posto di un giambo, nell’ultima sillaba troviamo uno spondeo).