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My Mistress’ Eyes di Shakespeare: testo, traduzione e commento

Francesca Mondani

Francesca Mondani

DOCENTE DI INGLESE E ITALIANO L2

Specializzata in pedagogia e didattica dell’italiano e dell’inglese, insegno ad adolescenti e adulti nella scuola secondaria di secondo grado. Mi occupo inoltre di traduzioni, SEO Onsite e contenuti per il web. Amo i saggi storici, la cucina e la mia Honda CBF500. Non ho il dono della sintesi.

La poesia di William Shakespeare sorprende ancora oggi per la sua freschezza e la sua audacia. My Mistress’ Eyes (Sonetto 130) ne è una dimostrazione concreta, in grado di ribaltare i canoni amorosi più diffusi nell’epoca elisabettiana.

Testo e traduzione del sonetto 130 di Shakespeare

My Mistress’ Eyes (Sonetto 130) si può considerare tra i componimenti più noti dell’intera raccolta. Il suo testo originale, in versi inglesi del tardo Cinquecento, presenta un linguaggio volutamente diretto e privo di raffinate esagerazioni. Nella traduzione italiana, emerge la vena ironica: ogni verso demitizza un elemento comunemente esaltato dai poeti del tempo, sostituendolo con un’immagine più realistica. La donna di Shakespeare non ha labbra di corallo, capelli d’oro o gote come rose, ma la sua bellezza risiede nella normalità.

Testo originale

My mistress’ eyes are nothing like the sun;
Coral is far more red than her lips’ red;
If snow be white, why then her breasts are dun;
If hairs be wires, black wires grow on her head.
I have seen roses damasked, red and white,
But no such roses see I in her cheeks;
And in some perfumes is there more delight
Than in the breath that from my mistress reeks.
I love to hear her speak, yet well I know
That music hath a far more pleasing sound;
I grant I never saw a goddess go;
My mistress, when she walks, treads on the ground.
And yet, by heaven, I think my love as rare
As any she belied with false compare.

Traduzione

Gli occhi della mia donna non somigliano affatto al sole;
il corallo è di certo più rosso delle sue labbra;
se la neve è bianca, allora il suo seno ha un colore spento;
e se i capelli fossero fili, sulla sua testa ne spuntano di neri.
Ho visto rose screziate, rosse e bianche,
ma non ne vedo di simili sulle sue guance;
e in alcuni profumi c’è un diletto maggiore
rispetto a quello del respiro che le esce dalle labbra.
Amo sentirla parlare, ma so bene
che la musica ha un suono di gran lunga più armonioso;
ammetto di non aver mai visto una dea camminare;
quando la mia donna si muove, poggia i piedi a terra.
Eppure, per il cielo, ritengo il mio amore prezioso
quanto qualsiasi altra donna che sia stata falsamente incensata.

La struttura metrica e il ruolo della rima

La forma metrico-retorica del sonetto elisabettiano si distingue dalla variante italiana per la disposizione delle rime e la suddivisione delle strofe. La scelta di Shakespeare ricade su tre quartine e un distico finale, un’organizzazione che permette di sviluppare l’argomento in modo graduale, per poi giungere a una conclusione spesso sorprendente.

Sebbene Shakespeare innovi la tradizione, l’ossatura rimane fondata su precisi criteri di misura e musicalità, dimostrando la sua perizia nel piegare le regole poetiche alle esigenze personali. Nel caso del Sonetto 130, l’effetto di straniamento prodotto dall’enumerazione di difetti raggiunge il culmine nell’ultimo verso, in cui il poeta, con un tocco di elegante semplicità, afferma che la sua donna, pur priva di tutte quelle virtù stereotipate, è comunque rara.

L’uso del pentametro giambico

Il pentametro giambico è alla base della prosodia shakespeariana: ogni verso è composto da cinque piedi giambici, ossia dieci sillabe con accento sulla seconda, sulla quarta e così via. Questa regolarità ritmica conferisce al sonetto un andamento armonico, che si presta a un recitativo musicale. Quando il lettore segue il metro, avverte un flusso sonoro che avvolge e cattura, rendendo la lettura un’esperienza quasi teatrale.

Shakespeare talvolta gioca con questa struttura, introducendo pause inaspettate o parole che spezzano la linearità. Nel Sonetto 130, tali deviazioni sono minime ma significative: in certi punti, l’accento si sposta per enfatizzare l’ironia di un’affermazione, creando un breve sobbalzo nel ritmo. L’esecuzione a voce alta di questi versi mette in luce la vivacità e la consapevolezza prosodica dell’autore.

Il ruolo della rima e delle pause

La rima, nella versione shakespeariana, è disposta di solito secondo lo schema ABAB CDCD EFEF GG, una soluzione che favorisce la progressione del tema. Le prime dodici righe sviluppano l’argomento, mentre il distico conclusivo riserva una riflessione finale. In My Mistress’ Eyes, l’uso dell’ultimo paio di rime chiude il componimento con un sorriso rivelatore: il poeta ammette che, nonostante la mancanza di virtù angeliche, la sua amata è per lui unica e desiderabile.

Le pause interne, spesso coincidenti con punteggiatura marcata, scandiscono l’elenco di difetti e rafforzano l’effetto di sorpresa in cui, a ogni verso, ci si attende un elogio tradizionale che però non arriva. Lo scarto tra le aspettative del lettore e la descrizione realistica della donna diventa la chiave di volta su cui si regge l’intero sonetto.

Il sonetto di Shakespeare e il contesto elisabettiano

Il Sonetto 130 di William Shakespeare, comunemente noto per l’incipit “My mistress’ eyes are nothing like the sun”, è un componimento che si discosta in modo netto dalle lodi esagerate tipiche della tradizione petrarchista e degli altri sonettisti elisabettiani. Il suo messaggio centrale si rivela in un ribaltamento degli stereotipi amorosi: in luogo di paragoni idilliaci, Shakespeare sceglie riferimenti quotidiani e perfino “ordinari” per descrivere la donna amata. L’intento, tuttavia, non è sminuirne il fascino, ma sottolineare un modo più autentico di celebrare i sentimenti, in cui i difetti reali risultano addirittura preferibili a una perfezione idealizzata.

L’Inghilterra elisabettiana, teatro in cui visse e operò William Shakespeare, era caratterizzata da un fervore culturale ineguagliabile. Il teatro, la poesia e le arti in generale godevano di un notevole sostegno da parte dei circoli nobiliari, desiderosi di mostrare lo splendore della propria corte. Shakespeare, nel pieno di questo fermento, contribuì a consolidare il prestigio della lingua inglese, allontanandosi dai modelli classici in cui ancora primeggiavano latino e greco. Inoltre, Shakespeare, sin dai primi componimenti, ha dimostrato la capacità di muoversi all’interno dei vincoli fissi del sonetto tradizionale, innovandoli.

La sua produzione poetica più conosciuta è rappresentata dai 154 sonetti, scritti probabilmente tra il 1592 e il 1598, ma pubblicati in forma completa solo nel 1609. Questi testi si inseriscono nella tradizione del tempo, eppure mostrano differenze che rivelano una notevole audacia formale e concettuale. My Mistress’ Eyes è un esempio di come Shakespeare amasse giocare con i tropi letterari, sovvertendone le attese e spingendo il lettore a interrogarsi sulla vera natura dell’amore.

Tra l’altro, in My Mistress’ Eyes si scorge un sarcasmo sottile, diretto a tutti coloro che riproducevano gli stessi cliché amorosi, basati sul paragone della donna con entità celestiali o su esagerazioni fisiche poco aderenti alla realtà. Il valore di questa impostazione risiede nello smascherare una finta idealizzazione e nel riaffermare che la verità di un rapporto umano può esprimersi con parole più terrene e meno enfatiche.

La tradizione del sonetto e la distanza dagli ideali petrarchisti

Il sonetto, importato in Inghilterra durante il regno di Enrico VIII, subì profonde trasformazioni. Da schema metrico e retorico di origine italiana, con un impianto tipicamente petrarchesco, si evolse verso la forma cosiddetta shakespeariana, in cui i versi sono organizzati in tre quartine e un distico finale a rima baciata.

Nella fase elisabettiana, i poeti si ispiravano spesso a Petrarca per la rappresentazione dell’amore come sentimento sublime, incorniciato da metafore angeliche o paragonato a fenomeni naturali di straordinaria bellezza (occhi come stelle, capelli come fili d’oro, pelle candida come neve).

Shakespeare, ereditando questa tradizione, ne fece il proprio terreno di sperimentazione. Nei suoi sonetti alterna momenti di puro lirismo a passaggi di critica o di umorismo, talvolta celando dietro giochi di parole la riflessione sulla caducità della vita, sull’immortalità dell’arte e sulla fragilità dei rapporti umani.

Sin dal primo verso di My Mistress’ Eyes, è evidente il rifiuto di un’immagine idealizzata, in cui la donna doveva incarnare un’immacolata creatura sovrannaturale. Shakespeare, infatti, dichiara subito che gli occhi della sua donna non sono paragonabili al sole, e prosegue con paragoni ancorati alla realtà, sottolineando i limiti e le imperfezioni della bellezza umana. Quest’approccio, in apparenza dissacrante, nasconde in realtà un affetto sincero e libero da ipocrisie. In tal modo, l’autore si allontana dai modelli petrarcheschi, lasciando un segno profondo nella poesia inglese.