Capitolo 10 de I Promessi Sposi: riassunto e commento
Il Capitolo 10 de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni approfondisce la complessa figura di Gertrude, nota come la Monaca di Monza, esplorando le circostanze che l’hanno condotta alla vita monastica e le sue vicende successive. Questo capitolo offre uno sguardo penetrante sulle dinamiche familiari oppressive e sulle conseguenze psicologiche di scelte imposte, evidenziando tematiche di costrizione sociale e conflitto interiore.
- Un’infanzia negata tra imposizioni e illusioni
- L’umiliazione e la forzatura della volontà
- Una vocazione imposta e il tormento del presente
- Il significato simbolico del capitolo
Un’infanzia negata tra imposizioni e illusioni
Fin dalla sua infanzia, Gertrude viene indirizzata con forza verso la vita monastica. Figlia di un nobile potente, è destinata fin dalla nascita a farsi suora, non per vocazione ma per convenienza familiare: una scelta che avrebbe liberato la famiglia da un’eredità in più e rafforzato il prestigio dinastico. La bambina cresce in un ambiente chiuso e rigido, dove le lusinghe e le attenzioni che riceve sono tutte orientate a farle accettare con entusiasmo ciò che è già stato deciso per lei. Le viene fatto credere che il convento sia un luogo di onore e distinzione, e che la sua scelta – in realtà mai veramente tale – sarà segno di privilegio e spiritualità. Manzoni descrive con finezza la strategia manipolatoria che porta Gertrude ad accettare un destino non suo: una rete sottile di parole, silenzi, sguardi, promesse ambigue e accenni di minaccia, che lasciano poco spazio alla libertà.
L’infanzia e l’adolescenza di Gertrude sono quindi segnate da un continuo conflitto interiore, da un desiderio naturale di libertà e amore, e dalla sensazione di essere intrappolata in una gabbia dorata. Ogni suo tentativo di ribellione viene represso con fermezza, ma senza mai apparire apertamente violento: Manzoni mostra come il potere si possa esercitare anche attraverso l’affetto simulato, le mezze parole, l’isolamento sociale e la minaccia implicita di essere tagliata fuori dal mondo.
L’umiliazione e la forzatura della volontà
Nel momento decisivo della sua giovinezza, Gertrude tenta un timido gesto di resistenza, sperando di poter sottrarsi al proprio destino. Ma quando si scopre una sua relazione segreta con un giovane servo del palazzo, il padre la usa come pretesto per schiacciarla definitivamente. L’episodio è raccontato da Manzoni con toni tragici e senza alcuna indulgenza verso l’autorità paterna, che appare in tutta la sua crudeltà fredda e calcolatrice. Gertrude viene umiliata pubblicamente, privata della sua dignità, e infine costretta a pronunciare quella formula di accettazione dell’abito monastico che rappresenta il culmine della sua sottomissione.
Il narratore non ci risparmia i dettagli di questa coercizione psicologica: la scena in cui Gertrude, sola, si ritrova davanti alla scelta obbligata, è carica di tensione emotiva. Il gesto della firma sul documento che la vincola alla vita monastica è descritto come un atto di disperazione mascherata da obbedienza, e non come una vera adesione spirituale. È uno dei momenti più potenti del romanzo, dove si percepisce con chiarezza la frattura profonda tra l’apparenza delle convenzioni sociali e la verità della sofferenza individuale.
Una vocazione imposta e il tormento del presente
Il passaggio forzato alla vita religiosa non segna una pacificazione dell’animo di Gertrude. Al contrario, rappresenta l’inizio di un tormento più profondo, fatto di rimpianti, sensi di colpa, rabbia repressa e solitudine. Manzoni ci mostra come la clausura del convento non riesca a spegnere i desideri e le passioni della donna, ma finisca solo per renderli più contorti, più oscuri, più pericolosi. La Monaca di Monza, che nel presente narrativo appare altera e misteriosa, trova in questo capitolo una spiegazione alla sua ambiguità: non è una figura interamente negativa, ma una creatura tragica, una vittima diventata complice del male per difendersi dal dolore.
Il ritratto che ne emerge è complesso, sfaccettato, lontano da ogni stereotipo. Gertrude non è la semplice peccatrice o la donna seduttrice, ma un’anima spezzata che cerca invano una via di redenzione. Manzoni non la giustifica, ma nemmeno la condanna senza appello: ne analizza il dramma con lucidità e partecipazione, invitando il lettore a riflettere sulle conseguenze devastanti delle costrizioni sociali e sulla violenza invisibile che può essere esercitata con la scusa dell’ordine, dell’onore e della rispettabilità.
Il significato simbolico del capitolo
Il Capitolo 10 ha una funzione narrativa e simbolica molto forte all’interno del romanzo. Da un lato, approfondisce un personaggio centrale che avrà un ruolo importante nello sviluppo della vicenda, soprattutto per quanto riguarda Lucia. Dall’altro, rappresenta una riflessione più ampia sulla condizione femminile nell’Italia del Seicento, sulla mancanza di libertà delle donne e sul potere distruttivo delle convenzioni familiari e religiose. Gertrude diventa così un emblema della tragedia umana nascosta dietro l’apparenza della normalità.
Questo capitolo è anche una dimostrazione della maestria narrativa di Manzoni, che riesce a trasformare una parentesi biografica in un vero e proprio racconto autonomo, capace di emozionare, indignare e far riflettere. L’uso del linguaggio, la profondità psicologica, la delicatezza nel tratteggiare i moti interiori: tutto concorre a fare di questo capitolo uno dei vertici letterari del romanzo.
Se Gertrude appare nel presente della narrazione come una figura ambigua, è solo conoscendo il suo passato – come fa Manzoni in queste pagine – che possiamo davvero comprenderne la complessità e la tragicità. Il Capitolo 10, quindi, non è una semplice digressione, ma un momento di profonda umanità, che arricchisce il romanzo di un’intensità emotiva e morale straordinaria.