Capitolo 23 de I Promessi Sposi: riassunto e temi
Il Capitolo 23 dei Promessi Sposi è interamente dedicato alla figura del cardinale Federigo Borromeo e rappresenta una delle digressioni più importanti e significative del romanzo. In questo capitolo, Manzoni sospende momentaneamente la narrazione principale per offrire al lettore un ritratto biografico e morale del personaggio che ha avuto un ruolo decisivo nella conversione dell’Innominato e nella protezione di Lucia.
Non si tratta di una parentesi priva di funzione narrativa: al contrario, è un momento in cui l’autore presenta il modello ideale di pastore cristiano, contrapponendolo in modo esplicito ai rappresentanti corrotti, pavidi o mondani del clero che sono comparsi altrove nella vicenda.
- L’educazione e la vocazione di Federigo Borromeo
- Un uomo di cultura, carità e riforma
- Il contrasto con la realtà del tempo
- La funzione narrativa e simbolica del capitolo
- Un capitolo di elogio morale e spirituale
L’educazione e la vocazione di Federigo Borromeo
Manzoni introduce la figura del cardinale Federigo con un tono di profondo rispetto, chiarendo fin dalle prime righe che il personaggio non è frutto della fantasia, ma storicamente esistito. Nato nel 1564 da una nobile famiglia milanese (cugino di san Carlo Borromeo), Federigo fu educato in un ambiente che avrebbe potuto spingerlo verso una carriera brillante e mondana, ma scelse invece la strada della vocazione religiosa. Fin da giovane si distinse per l’impegno nello studio, la serietà e una profonda tensione spirituale.
Manzoni sottolinea il fatto che la sua cultura non era mai disgiunta dalla fede: lo studio delle lettere, della teologia e della filosofia non era per lui fine a sé stesso, ma strumento per comprendere meglio la realtà e servire Dio. La sua formazione, maturata anche presso l’Università di Pavia e poi a Roma, si fondò sulla convinzione che il sapere dovesse essere messo a servizio del bene comune e della Chiesa.
Un uomo di cultura, carità e riforma
Federigo Borromeo non fu solo un uomo colto, ma anche un attivo promotore della carità e del rinnovamento ecclesiastico. Manzoni elogia con ammirazione le sue numerose iniziative, in particolare la fondazione della Biblioteca Ambrosiana di Milano, uno dei più importanti centri culturali del tempo, nata con l’intento di rendere accessibile il sapere anche a studiosi privi di mezzi. Questo gesto è indicativo della sua visione: la cultura doveva essere uno strumento di crescita morale e civile, non un privilegio elitario.
Ma ciò che più colpisce nella sua figura è la coerenza tra pensiero e azione. Federigo non si limitava a predicare, ma viveva in prima persona la carità cristiana. Durante carestie, epidemie e guerre, non esitava a soccorrere i poveri, visitare i malati, portare conforto ai sofferenti. La sua casa era sempre aperta, la sua parola sempre misurata e carica di compassione. Manzoni lo descrive come una guida spirituale autentica, lontano tanto dalla severità formale quanto dal lassismo: un uomo giusto, ma misericordioso.
Il contrasto con la realtà del tempo
La figura di Federigo Borromeo, così come la tratteggia Manzoni, emerge per contrasto rispetto alla realtà ecclesiastica e sociale del Seicento. In un’epoca in cui molti uomini di Chiesa vivevano nel lusso, nella pigrizia o nell’indifferenza verso i propri doveri, il cardinale rappresentava un’eccezione luminosa, un esempio concreto di come si potesse conciliare autorità e umiltà, potere e servizio.
Questo contrasto è ancora più evidente se si pensa a figure come Don Abbondio, il curato pavido e opportunista, o come Gertrude, costretta e corrotta dalle logiche familiari. Mentre essi si muovono in un mondo di compromessi e debolezze, Federigo agisce con limpidezza, mostrando che una vita coerente con il Vangelo non solo è possibile, ma è anche efficace nel trasformare la realtà. La conversione dell’Innominato ne è la prova: non è stato un discorso retorico a cambiare quell’uomo, ma la forza morale di chi vive ciò che predica.
La funzione narrativa e simbolica del capitolo
Sebbene si presenti come una digressione, il Capitolo 23 ha un ruolo preciso nella struttura del romanzo. Innanzitutto, rafforza la credibilità della conversione dell’Innominato: il suo cambiamento non è improvviso né inverosimile, ma reso possibile dall’incontro con una figura realmente capace di incarnare il bene. In secondo luogo, il capitolo serve a chiarire al lettore la visione etica e religiosa di Manzoni, che non si limita a condannare i mali del tempo, ma indica modelli positivi, concreti e storicamente fondati.
Dal punto di vista simbolico, Federigo Borromeo rappresenta il pastore buono, colui che guida il suo gregge non con la forza ma con l’esempio. È un personaggio che incarna la Provvidenza nella forma dell’uomo giusto, e che mostra come anche nel male più profondo possa insinuarsi una possibilità di bene. In questo senso, la sua presenza nel romanzo è fondamentale: non è solo un personaggio, ma un messaggio vivente di speranza e di giustizia possibile.
Un capitolo di elogio morale e spirituale
Il Capitolo 23 è uno degli esempi più limpidi della visione manzoniana dell’uomo e della storia. In esso, l’autore rende omaggio a un protagonista della sua epoca che, pur avendo vissuto in un mondo corrotto e difficile, seppe distinguersi per integrità, umiltà e dedizione al bene comune. La sua figura non è idealizzata, ma restituita con realismo e ammirazione: non un santo irreale, ma un uomo che ha saputo scegliere e perseverare nel bene.
In un romanzo attraversato da soprusi, violenza, debolezza e compromessi, la figura di Federigo Borromeo illumina la narrazione con una luce di autenticità. Il lettore è chiamato a riflettere non solo sul valore del singolo gesto, ma sull’importanza della coerenza tra pensiero e azione. Con questo capitolo, Manzoni invita a credere nella forza silenziosa della virtù, nella possibilità che anche in tempi oscuri esistano uomini capaci di farsi guida e sostegno per gli altri.