Salta al contenuto

La terza guerra d'indipendenza

Fronte meridionale della guerra austro-prussiana e combattuta dal 20 giugno al 12 agosto 1866, permise al Regno d'Italia di annettere il Veneto, Mantova e parte del Friuli

Paolo Marcacci

Paolo Marcacci

INSEGNANTE DI LETTERE, GIORNALISTA PUBBLICISTA, SPEAKER RADIOFONICO, OPINIONISTA TELEVISIVO

Ho trasformato in professione quelle che erano le mie passioni, sin dagli anni delle elementari. Dormivo con l'antologia sul comodino e le riviste sportive sotto il letto. L'una mi è servita per diventare una firma delle altre. Per questo, mi sembra di non aver lavorato un solo giorno in vita mia.

Dall’Unità d’Italia alla guerra

Il 17 marzo 1861, a seguito della spedizione dei Mille, era sorto ufficialmente il Regno d’Italia, con Vittorio Emanuele II di Savoia come primo sovrano, ma il processo di unificazione era tutt’altro che prossimo al suo reale compimento: il Veneto, il Trentino e Trieste, infatti, erano ancora sotto l’egida austriaca, mentre Roma sotto quella di papa Pio IX. Se la cosiddetta “Questione romana” portò all’arresto di Garibaldi per non rovinare i rapporti con Napoleone III, a sua volta protettore dello Stato pontificio, per quelle veneta l’Italia seppe sfruttare le tensioni tra Prussia ed Austria, l’Italia stringendo un’alleanza con il primo ministro Otto von Bismarck l’8 aprile 1866. Quest’ultimo il 14 giugno invase la Sassonia e, come da accordi, il Regno dichiarò guerra all’Austria sei giorni più tardi. Di fatto, quella che si combatté sul nostro, attuale territorio, che prese il nome di Terza Guerra d’Indipendenza, altro non fu che il fronte meridionale della guerra austro-prussiana. Ad ogni modo, all’alba del 24, la 5ª Divisione (Sirtori) del 1° Corpo d’armata incontrò il nemico e continuò ad avanzare fino a Oliosi, dove andò in scena un combattimento cruento. Perse la vita il generale Onorato Rey di Vallerey e le nostre truppe, numericamente la metà rispetto a quelle austriache (16mila contro 32mila), respinsero eroicamente numerose offensive. Dalle 11 alle 21.30 si lottò per il controllo delle colline moreniche e delle alture di Custoza, località che diede il nome alla battaglia: la sconfitta italiana, tuttavia, non fu determinante, soprattutto grazie al contemporaneo successo prussiano sul fronte settentrionale.

La seconda guerra d’indipendenza

La sfida di Ancona e la vittoria prussiana di Sadowa

Mentre i garibaldini occuparono le posizioni di Monte Suello e Ponte Caffaro, al limite del confine bresciano con il Tirolo, con l’intento di penetrare quanto più possibile in territorio asburgico, la flotta italiana, poi raggiunta dalle pirocorvette corazzate della Regia Marina, Formidabile e Terribile, la mattina del 21 giugno lasciò il porto di Taranto e raggiunse Ancona il pomeriggio del 25. All’alba del 27 giugno, l’avviso a ruote Esploratore individuò una squadra austriaca in avvicinamento, con la Kaiserin Elisabeth alla portata di tiro della Regina Maria Pia che, per ordine dell’ammiraglio Persano, non aprì il fuoco, né fu comandato l’inseguimento: la decisione fu dettata dalla condizione critica in cui versava la flotta italiana. Lo stesso presidente del Consiglio Ricasoli si era raccomandato di non impegnarla se non “che colla sicurezza della vittoria“. Nel frattempo, la Prussia invase la Boemia e il 3 luglio ottenne una schiacciante vittoria nella battaglia di Sadowa. Il giorno dopo l’Austria chiese la mediazione di Napoleone III offrendogli il Veneto, a patto che l’Italia si ritirasse dalla guerra. Il capo di stato maggiore Alfonso La Marmora, però, considerò umiliante ricevere la regione come ‘dono’ dalla Francia e, contemporaneamente, temette di venir tacciato di tradimento dalla Prussia. Fu così che si decise di dare un’accelerata alle offensive, con Cialdini alla guida di un’armata di 14 divisioni verso l’Isonzo, La Marmora con 6 divisioni per mantenere il blocco delle fortezze del Quadrilatero operando l’assedio di Verona, Garibaldi alla conquista del Trentino e di Trieste, per poi aizzare contro l’Austria croati ed ungheresi, e Persano al comando della flotta, che subì una pesantissima sconfitta nella battaglia di Lissa (l’ammiraglio, scagionato dalle accuse di alto tradimento e viltà di fronte al nemico, fu ritenuto colpevole dei reati di negligenza, imperizia e disubbidienza, per i quali venne condannato alle dimissioni forzate, alla perdita dei gradi e alle spese di giudizio). L’eroe dei due mondi, tra il 16 e il 19 luglio, vinse l’assedio del Forte d’Ampola che gli consentì di conquistare una forte posizione austriaca, quindi, con i suoi uomini, si fece strada verso Riva del Garda, battendo il nemico – il giorno 21 – nella battaglia di Bezzecca. Si aggiunse poi un’ulteriore divisione, con a capo l’ex garibaldino Giacomo Medici, che il 22 occupò Primolano, il 23 Borgo Valsugana e, dopo uno scontro vittorioso, si spinse il 24 fino a Levico (mentre Cialdini sconfisse un’avanguardia nemica a Palmanova), per giungere il 27 presso Civezzano, a ridosso di Trento. Il giorno prima, inoltre, bersaglieri e cavalleria italiani si erano imposti nella battaglia di Versa, segnando la massima avanzata in Friuli.

L’armistizio di Cormons e la pace di Vienna

Bismarck, nel frattempo, aveva acconsentito sia ad una mediazione francese che all’armistizio con l’Austria, ponendo come condizioni la riforma della Confederazione germanica con l’esclusione dell’Austria dagli affari tedeschi e il controllo prussiano dei territori tedeschi a nord del fiume Meno. Contestualmente, Ricasoli il governo Ricasoli subordinò la tregua alla consegna della fortezza di Verona, alla cessione del Veneto direttamente dall’Austria (anziché dalla Francia) e al riconoscimento della frontiera naturale, con la cessione anche di Trento e Bolzano. Napoleone III aggiunse a ciò che gli stati tedeschi a sud del Meno creassero una loro confederazione, oltre che fosse preservata l’integrità dell’Impero austriaco, ad eccezione del Veneto. Il piano francese fu accettato sia da Vienna che da Berlino e il 21 luglio si giunse ad una tregua di cinque giorni, quindi, il 26, Austria e Prussia siglarono l’armistizio di Cormons, cui l’Italia, per non proseguire la guerra contro l’impero asburgico da sola, aderì formalmente il 29, pur senza firmarlo. Di fatto, il nostro Paese dovette rinunciare alle proprie pretese sul Trentino e sul Tirolo, in quanto non venne riconosciuto l’uti possidetis, cioè il principio basato su quanto conquistato militarmente, e fu costretto a ritirare le truppe dalle suddette aree: ricevuto tale ordine dal Comando Supremo dell’Esercito, Garibaldi rispose con la celebre espressione “Obbedisco. Napoleone III negoziò con l’Austria una convenzione per la cessione del Veneto alla Francia, che l’avrebbe poi trasferita all’Italia: un atto imbarazzante ed offensivo che l’ambasciatore a Parigi Costantino Nigra e il generale Luigi Menabrea tentarono in tutti i modi di evitare, invano. La convenzione franco-austriaca per la cessione del Veneto a Napoleone III fu siglata il 24 agosto, quindi la popolazione sarebbe stata chiamata ad esprimersi tramite un plebiscito per confermare il passaggio all’Italia della loro regione. A Vienna, intanto, Menabrea riprese le trattative con l’Austria e il 3 ottobre 1866 annunciò al ministro Visconti Venosta che il trattato di pace era stato firmato: tra le note allegate vi fu la consegna all’Italia della Corona ferrea, simbolo della sovranità sulla penisola, utilizzata per secoli nella consacrazione di numerosi sovrani e considerata dalla Chiesa cattolica una reliquia per via della tradizione che la vuole in parte realizzata con uno dei chiodi della crocifissione di Gesù. La cessione del Veneto dalla Francia all’Italia avvenne – il 19 ottobre – in una stanza dell’hotel Europa sul Canal Grande e tra il 21 e il 22 si svolse il plebiscito con la stragrande maggioranza dei votanti che votò per l’annessione, mentre l’ingresso di Vittorio Emanuele II a Venezia il 7 novembre coincise con la fine della fase politica della Terza Guerra d’Indipendenza.