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La Stele di Rosetta: descrizione dei geroglifici

Cosa rappresenta la famosa stele? Quando è stata ritrovata e da chi? Come si presenta e quale ruolo - determinante! - ha avuto per la comprensione di una civiltà misteriosa e affascinante come quella Egizia? Scopriamolo insieme

Valeria Biotti

Valeria Biotti

SCRITTRICE, GIORNALISTA, SOCIOLOGA

Sono scrittrice, giornalista, sociologa, autrice teatrale, speaker radiofonica, vignettista, mi occupo di Pedagogia Familiare. Di me è stato detto:“È una delle promesse della satira italiana” (Stefano Disegni); “È una scrittrice umoristica davvero divertente” (Stefano Benni).

Dove, quando, da chi è stata rinvenuta

È il 15 luglio del 1799 e la campagna napoleonica in Egitto – progettata per limitare il dominio britannico nel Mediterraneo e aprirsi una via verso le Indie – è in pieno svolgimento. Nella zona di Rashid – a circa 65 km a est di Alessandria, sulla costa del Mediterraneo – il capitano Pierre François Bouchard ordina al proprio reparto di dissotterrare un’antica fortezza rinominata dai francesi “Fort Julien”. È proprio durante lo scavo che un soldato si imbatte in un blocco di granodiorite, simile al granito, da circa 760 chili. Frastagliato e incompleto, è chiaro che rappresenti solo un frammento di una stele molto più grande.

Ricoperta da un fitto cartiglio, la pietra presenta con ogni evidenza tre scritture differenti.

Bouchard invia, allora, il reperto ad Alessandria, presso l’istituto che Napoleone ha strutturato già l’anno precedente proprio con la finalità di studiare l’antico Egitto attraverso l’analisi scientifica dei ritrovamenti effettuati durante la campagna militare. Vi lavorano 175 savants; sapienti.

Agli studiosi appare subito chiara la possibilità enorme fornita dalla stele: decrittare la scrittura geroglifica. Il nome Rosetta, con cui diviene famosa nel mondo, è quello derivato dalla latinizzazione del termine Rashid, in arabo رشيد.

Come si presenta

La stele di Rosetta – ovvero il frammento a noi pervenuto – è alta 114,4 centimetri nel suo punto più alto, larga 72,3 centimetri e spessa 27,9 centimetri.
Si stima che, nella sua interezza, fosse alta circa 149 centimetri.
Il segno geroglifico utilizzato per indicare la stele stessa ne suggerisce la forma arrotondata sulla sommità


Suddivisa in tre registri, è attraversata da altrettante scritture differenti:
– geroglifica,
– demotica,
– greco antica.

Il termine «Geroglifico» è di derivazione greca: ἱερογλυφικός (hieroglyphikós).
È composto dall’aggettivo ἱερός (hieròs), «sacro», e dal verbo γλύφω (glýphō), «incidere».
I simboli di tale forma di scrittura, infatti, erano incisi sulla pietra e utilizzati come scrittura monumentale dal valore sacro.
Combinavano elementi sillabici, alfabetici e logografici (ovvero in cui significato e significante, senso e segno – grafico e fonetico – sono espressi da un unico elemento).

La scrittura demotica era quella comune, destinata ai documenti appannaggio del popolo: δῆμος (démos). La conoscenza dei geroglifici, infatti, era ristretta alla classe sacerdotale.
Ci si riferisce, con il termine demotica, sia alla penultima fase della lingua egizia che al sistema di scrittura utilizzata per trascriverla.
Lo si registra a partire dalla metà del primo millennio a.C. fino al periodo del Tardo Egitto, momento in cui si susseguono le occupazioni da parte di popolazioni straniere.

Il greco classico, infine, era la lingua della dinastia regnante al tempo della realizzazione della stele (la si colloca con assoluta precisione nel 196 a.C.), quella dei Tolomei.

E, dunque, cosa c’è scritto?

Quando nel 1801 i francesi dovettero arrendersi agli inglesi, la disputa sulla proprietà dei molti reperti rinvenuti non fu cosa da poco. Per gli uni rappresentavano un diritto acquisito, per gli alti parte del bottino di guerra.

Furono i vincitori a spuntarla, mentre ai francesi vennero concessi gli appunti e le annotazioni, corredate dei disegni realizzati di loro pugno.

Sia gli inglesi che i francesi, dunque, si misero al lavoro per surclassare – questa volta su un terreno apparentemente meno bellicoso – i diretti concorrenti.

Prima della decrittazione della stele di Rosetta, la comprensione della lingua egizia antica si era persa del tutto. La greca, invece, era nota.

I ricercatori ebbero presto la certezza che le tre epigrafi fossero la versione, nelle tre lingue, di uno stesso testo: un decreto sacerdotale in onore del faraone Tolomeo V, datato – come detto – 196 a.C, emanato per cercare di ristabilire il dominio supremo e divino dei re tolemaici sull’Egitto, durante un periodo decisamente turbolento della sua storia.

Il testo enumera i benefici che il Faraone ha apportato al Paese, la sapiente opera di abrogazione delle tasse, la decisione da parte dei sacerdoti di erigere una stadio d’oro con la sua effige in ogni tempio, nonché l’istituzione di festeggiamenti in suo onore.

Prescrive, inoltre, che il decreto stesso sia pubblicato utilizzando: le parole degli dei (ovvero i geroglifici), la scrittura del popolo (il demotico) e in greco.

Quando si è sciolto l’arcano

Molti furono gli studiosi che contribuirono al cammino verso l’agognata risposta. Ma se si deve identificare il momento dello scatto, l’attimo in cui il disegno improvvisamente iniziò a chiarirsi, non si può non attribuirne il merito a un docente di Grenoble – Jean Francois Champollion – profondo conoscitore della lingua copta:

una forma tarda della lingua egizia, redatta foneticamente attraverso l’uso dell’alfabeto greco.

Nel 1822, confrontando le copie delle iscrizioni geroglifiche e greche dell’obelisco di File – in cui l’egittologo britannico William John Bankes aveva individuato le parole «Tolomeo» e «Kleopatra» – Champollion ne identificò la fonetica, riportandola ai nomi propri incisi sulla stele di Rosetta.
A quel punto – tra molte virgolette – “il gioco era fatto”: costruì un alfabeto di caratteri geroglifici fonetici sulla base dei quali identificare nuove parole, così come alcune significative affinità nei nomi dei linguaggi greco ed egizio.

Nel 1823 identificò i nomi di Ramses II e Thutmose I, in cartigli.

Da quel momento in poi, il lavoro di tutti – da ogni parte del mondo – si sarebbe potuto concentrare sulla comprensione dei testi, attraverso il costante confronto delle tre versioni.

Dove si trova la stele oggi

L’originale è ancora custodito al British Museum di Londra, dove è approdata nel 1802. Una copia risiede presso il Museo Egizio de Il Cairo.

Più volte è stata richiesta la restituzione del manufatto ai legittimi – o quantomeno agli originari – proprietari.

Il diniego è sempre stato inamovibile.

Vi è, infatti, una opposizione netta e trasversale da parte dei principali musei del mondo, sul tema del rimpatrio degli oggetti trafugati come bottino di guerra nel corso della storia e che oggi rappresentano elementi di rilievo culturale internazionale.

Nel 2002, oltre 30 strutture museali tra le più illustri – tra cui il British, il Louvre, il Metropolitan di New York e il Pergamon di Berlino – hanno emesso una nota congiunta per chiudere la questione, dichiarando che: «gli oggetti acquistati in tempi precedenti vanno considerati alla luce di diverse sensibilità e valori riflettenti quell’epoca precedente». Cosi come «i musei non servono solo i cittadini di una nazione, ma il popolo di ogni nazione».

Una chiosa che sembrerebbe soddisfare – guarda caso – solo chi ha ben pensato di farla.