Tito Livio, storico romano, si presume nasca a Padova nel 59 a.C.: ne parlano diversi autori e lo confermerebbe lui stesso all’inizio di Ab Urbe condita, citando Antenore (fondatore della città). Di origine plebea dal lato paterno, vanta illustri antenati da parte di madre. Impara il latino e in greco e si trasferisce a Roma per completare gli studi.
Stringe rapporti con l’imperatore Augusto, ma senza ricoprire incarichi pubblici. La sua opera principale – composta da 142 volumi – celebra Roma e il suo imperatore, ma è anche autore di scritti filosofici e retorici andati persi. Tito Livio ha un figlio, che studia Demostene e Marco Tullio Cicerone, e una figlia, che sposa Lucio Magio. Muore nel 17 d.C.
Nella sua produzione letteraria utilizza il metodo storiografico, che alterna la cronologia alla narrazione. Si concentra sulla denuncia della decadenza dei costumi ed esalta i valori che fanno di Roma la città eterna. La stesura di Ab Urbe condita non è facile perché, in qualità di cittadino privato, Livio non può accedere agli archivi ma attingere solo da fonti secondarie. Nonostante sia un dettaglio a sfavore dell’esattezza storica, dona al racconto un’accezione mitica. Celebra i valori repubblicani e il desiderio di restaurazione.
È autore della prima ucronia conosciuta (definita anche come storia alternativa, allostoria o fantastoria) e immagina il destino del mondo qualora Alessandro il Grande fosse partito per conquistare l’Occidente al posto dell’Oriente. Secondo lui ne sarebbe uscito sconfitto.
Viene sempre accusato di patavinitas (“padovanità”). Secondo alcuni critici equivale a un giudizio di provincialità, altri fanno riferimento alla sua sfera morale e ideologica. Lo stile di Tito Livio è caratterizzato da architetture ben studiate e da periodi fluenti. Si notano sfumature drammatiche ma senza eccessi.
Considera la storia “Magistra Vitae” e pensa che si debba tornare alla grande potenza dell’Antica Roma. I suoi personaggi hanno caratteri quasi assoluti, rappresentano paradigmi di passioni (i cosiddetti tipi). Li fa parlare, sia con discorso indiretto che diretto, per dare informazioni utili alla narrazione della vicenda in questione. All’ultimo, spesso, ribalta il racconto inaspettatamente, seguendo il procedimento tipico del teatro greco, quello del “deus ex machina”. Si lascia ispirare da Erodoto e segue il modello di Isocrate.
L’opera di Livio è un esempio di stile e di rigore storiografico durante l’epoca dell’Impero, viene copiata nelle biblioteche imperiali, ma anche nel Medioevo. È ammirato da Dante Alighieri, nel XXVIII canto dell’Inferno della Divina Commedia, e da Niccolò Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.