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La dialettica e l'autocoscienza: tesi, antitesi e sintesi

Secondo Hegel la realtà va intesa come un costante divenire che ha un andamento dialettico, mentre la coscienza compie un viaggio finalizzato a scoprirsi libera e autonoma

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

La dialettica di Hegel

Hegel è il massimo rappresentante dell’idealismo tedesco, corrente che in Germania caratterizza il periodo del romanticismo e l’idea di fondo del suo idealismo è che la realtà sia un organismo unitario, la cui essenza profonda è data da un soggetto spirituale in costante divenire, che vive nelle cose e nella storia. Dopo la coincidenza fra reale e razionale (ciò che accade nella realtà è razionale, ovvero necessario, e i singoli momenti storici hanno un loro senso unitario, in quanto l’idea si dispiega in maniera razionale, ovvero verso uno scopo, che è il suo farsi spirito e trova una piena autocomprensione di sé: ciò che accade nella storia è quindi mosso dall’Assoluto verso una certa direzione), quella fra finito e infinito (l’Idea esiste concretamente perché si manifesta nelle singole cose e quest’ultime hanno un loro senso solo se comprese nel quadro più generale: l’infinito, ovvero l’Idea, esiste perché esistono i singoli momenti, i quali esistono solo grazie all’infinito) e la filosofia giustificatrice (la filosofia ha il compito di giustificare la realtà, ovvero spiegarla), il quarto caposaldo del pensiero di Hegel è il sistema della dialettica. La realtà, intesa come un costante divenire, è pertanto un processo sempre in corso e, dunque, un movimento, che non ha un andamento lineare, bensì dialettico. Con il termine ‘dialettica’, quindi, si indica il necessario confronto fra due momenti opposti fra di loro, chiamati Tesi e Antitesi. La prima è l’affermazione di qualcosa, la seconda, invece, è la sua negazione. Da questo confronto nasce la Sintesi, ovvero ciò che ricompone le differenze in un’unità nuova, superiore ai due momenti prima separati. Hegel definisce la Sintesi con il termine tedesco ‘Aufhebung’, traducibile letteralmente con “superare conservando e togliendo”: non a caso, la Sintesi altro non è che la conservazione di quanto espresso dalla Tesi e dall’Antitesi, oltre che un togliere ciò che prima le separava. Va da sé che la struttura dell’intera realtà è di natura dialettica: alla base della storia vi è infatti l’opposizione fra una Tesi (che Hegel chiama “idea in sé e per sé”, cioè l’Idea in se stessa, nella sua natura totalmente astratta, fuori dalla concretezza della natura) e un’Antitesi (l’“idea fuori di sé”, cioè l’Idea che esce da sé e si perde in quanto vi è di opposto a lei, la natura concreta nella sua limitazione spazio temporale, in un processo chiamato “alienazione”, che significa, per l’appunto, “uscita da sé”). La Sintesi, invece, definita “Idea che ritorna in sé”, si fa Spirito, ovvero vive concretamente nella natura attraverso l’uomo e in questo suo vivere nella storia acquista piena coscienza di sé. Questa struttura dialettica, che è alla base della realtà nel suo complesso, si moltiplica nei singoli momenti storici, culturali, artistici, politici e sociali: un esempio potrebbe essere quello di confrontare il mondo dell’antica Roma e quello germanico, considerando il primo la Tesi e il secondo l’Antitesi. L’esito non è la vittoria dell’uno sull’altro, ma la creazione di un qualcosa di nuovo, il mondo medievale, che è la Sintesi fra le due differenti culture.

Il processo di autocoscienza

Il processo di autocoscienza descrive il ‘viaggio’ della coscienza nel raggiungere la consapevolezza di sé e arrivare intellettivamente e razionalmente alla fine del percorso, realizzando di essere la realtà e scoprendosi libera e autonoma. La prima figura dell’autocoscienza è quella del servo-padrone, esemplificazione della condizione schiavile, e nasce dalla necessità dell’autocoscienza stessa di essere riconosciuta come tale, realizzabile soltanto tramite un’altra autocoscienza. Quindi, scopertasi libera e autonoma, essa tenta di realizzare queste libertà e autonomia nel mondo, cedendo all’appetito (inteso come il desiderio di appropriarsi del mondo ed averlo tutto per sé). Anche le altre autocoscienze, tuttavia, vogliono la medesima cosa, generando così un conflitto per la vita in cui ogni autocoscienza lotta con l’obiettivo di affermare la propria libertà e che termina soltanto con il subordinarsi di un’autocoscienza a un’altra: quindi, in un rapporto di servo-padrone. Il padrone è colui che ha rischiato la propria vita per affermare la sua indipendenza, sollevandosi dalla condizione animale usando la ragione, mentre il servo è colui che ha avuto paura della morte, cedendo all’istinto di sopravvivenza animale, e che ha preferito sottomettersi, negando la propria autonomia e libertà, piuttosto che rischiare. Il padrone, però, non ha ottenuto il riconoscimento come autocoscienza libera e autonoma, in quanto lo schiavo non è un suo pari e la sua libertà è solo apparente. Quello che viene a verificarsi è un rovesciamento dialettico dei ruoli, in cui il padrone diventa servo del servo e il servo diventa signore del signore. Infatti, il padrone, apparentemente libero e autonomo, dipende completamente – e passivamente – dal lavoro del servo che, al contrario, si rivela come la vera autocoscienza grazie alla funzione emancipativa del lavoro (il prodotto del suo lavoro è il prodotto della sua libertà e autonomia). Egli, infatti, ha il suo riconoscimento nel lavoro, in quanto riconosce se stesso nella cosa che ha creato, e quello come autocoscienza da un suo pari, ovvero se stesso nell’oggetto che ha creato tramite il lavoro. La seconda figura dell’autocoscienza, poi, è quella dello stoicismo, che celebra la libertà e l’indifferenza del saggio nei confronti di ciò che lo circonda. Se, però, la consapevolezza del servo di essere autocoscienza è interiore, astratta, non concreta, in quanto esternamente può essere comunque ancora schiavo, il saggio stoico è libero, indifferentemente se “sul trono o in catene”, poiché la libertà raggiunta è puramente interiore e la condizione esterna non è più importante. Questa indifferenza verso la realtà esterna genera un completo annullamento del mondo tipico dello scetticismo, che nega tutto ciò che è ritenuto vero e reale: ciò fa sì che gli scettici cadano in contraddizione, in quanto – secondo Hegel – tutto è vano e non vero, ma pretendono di dire qualcosa di reale e vero. L’ultima figura dell’autocoscienza, infine, è quella della coscienza infelice che, non sapendo di essere tutta la realtà, si ritrova dilaniata dal conflitto tra finito e infinito, che prende forma in una radicale separazione tra uomo e Dio, nel quale Dio, l’Assoluto, diventa trascendente. Ciò sfocia nell’Ascetismo e nelle sue pratiche di mortificazione del corpo fino all’annientamento degli aspetti umani. Questo punto, il più basso, si eleva nel momento in cui l’uomo si accorge di essere lui stesso Dio, superando la condizione di finitezza e unendosi con l’infinito: è questa la fine del processo di autocoscienza, che passa alla ragione, storicamente intesa come il passaggio dal Medioevo al mondo moderno.