Salta al contenuto

La fenomenologia dello spirito: il viaggio dell’autocoscienza

Hegel descrive il percorso che ogni individuo deve compiere per identificare le manifestazioni attraverso le quali lo spirito si innalza dalle forme più semplici di conoscenza a quelle più generali fino al sapere assoluto

Silvia Pino

Silvia Pino

GIORNALISTA PUBBLICISTA

Ho iniziato con le lingue straniere, ho continuato con la traduzione e poi con l’editoria. Sono stata catturata dalla critica del testo perché stregata dalle parole, dalla comunicazione per pura casualità. Leggo, indago e amo i giochi di parole. Poiché non era abbastanza ho iniziato a scrivere e non mi sono più fermata.

La ‘Fenomenologia dello Spirito’

‘Fenomenologia dello Spirito’ è un’opera filosofica – tra le più complesse di sempre – pubblicata nel 1807 in cui Hegel descrisse il percorso che ogni individuo deve compiere, partendo dalla propria coscienza, per identificare le manifestazioni attraverso le quali lo spirito si innalza dalle forme più semplici di conoscenza a quelle più generali fino al sapere assoluto. Il filosofo tedesco sviluppò al suo interno il tema della risoluzione del finito nell’infinito, spiegando come l’approccio alla filosofia debba iniziare con l’esplorazione dei “fenomeni” (che si presentano a noi nell’esperienza conscia) quale mezzo per cogliere lo Spirito Assoluto, che è dietro il fenomeno: ecco perché quella hegeliana è detta “fenomenologia dialettica”, intesa come una scienza dell’esperienza della coscienza, una sorta di storia romanzata dello Spirito che, tra errori, contrasti, infelicità e dolore, esce dalla sua individualità e si riconosce come ragione che è realtà e viceversa: quindi, a partire dalle forme più semplici della coscienza individuale, perviene gradualmente e progressivamente al sapere assoluto (dal conoscere finito al conoscere infinito). Il percorso della coscienza è da intendere come un movimento dialettico immanente alla coscienza, che non è qualcosa di imposto arbitrariamente dall’esterno, ma che anzi, mossa da questa necessità interna, essa riconosce, volta per volta, l’inadeguatezza del proprio punto di vista. Il momento da cui inizia la consapevolezza di sé (coscienza) è rappresentato dall’incontro dell’individuo con l’oggetto, perché è proprio attraverso il confronto sensibile con gli oggetti che ci rendiamo conto della nostra esistenza. Dopo le tre fasi dell’incontro – certezza sensibile (si è certi che esista l’oggetto rivelato dai sensi, in un dato luogo e in un certo momento), percezione sensibile (le diverse proprietà degli oggetti possono essere riportate a un unico punto di riferimento che permetta di avere una visione unitaria della realtà) e intelletto (dobbiamo pensare che l’unità non stia nell’oggetto, ma nel soggetto che unifica le sensazioni) – la coscienza ha interiorizzato l’oggetto in se stessa ed è diventata, quindi, coscienza di sé, ovvero autocoscienza che non ha più bisogno di riferirsi agli oggetti per avere coscienza di sé, ma ha capito che la certezza della propria esistenza è data dalla sua attività intellettuale.

Autocoscienza, spirito, ragione e sapere assoluto

L’autocoscienza acquisisce un valore sociale e politico, in quanto si raggiunge solo se riusciamo a confrontare la nostra particolare esistenza con quella degli altri. Il riconoscimento delle altre autocoscienze non avviene attraverso l’amore, bensì con la lotta, arrivando talvolta a sfidare la morte al fine di affermarsi a scapito di coloro che hanno paura e scelgono di subordinarsi: è il rapporto fenomenologico di “servo-padrone”, spiegato nella dialettica della figura signoria-servitù. Il signore, nel rischiare la propria vita pur di affermare la propria indipendenza, ha raggiunto il suo scopo e si eleva su quello che è divenuto il suo servo. Quest’ultimo, al contrario, diventa importante per il signore poiché è il suo lavoro a mantenerlo in vita. Il padrone, pertanto, non potendo più a fare a meno del servo, fa sì che la subordinazione si rovesci, divenendo egli stesso servo. Il servo, invece, forte del lavoro fondamentale per il proprio padrone, proprio grazie alla sua attività produttiva si trasforma in padrone del padrone. Il raggiungimento dell’indipendenza coincide con lo stoicismo, cioè quella visione del saggio che ritiene di poter fare a meno delle cose, si sente al di sopra della natura e raggiunge l’autosufficienza. Tuttavia, in questo modo lo stoico s’illude di eliminare la realtà che continua invece a sussistere e ad influenzare la sua vita. Chi, invece, riesce ad ignorare totalmente la realtà è lo scettico, ma è una figura che si contraddice, poiché da un lato dubita della realtà e ritiene che tutto sia vano e incerto, mentre dall’altro vorrebbe poter sostenere qualcosa di reale e vero. Ciò che si verifica è una scissione tra l’Uno e il Tutto, tra individuo e totalità del mondo, tra la sua coscienza mutevole e quella immutabile di Dio, che diventa esplicita in quella spaccatura che l’uomo avverte fra se stesso e Dio. Se nell’Ebraismo sembra esserci un rapporto di signoria-servitù fra Dio e l’uomo, il Cristianesimo cerca – invano – di sanarla: infatti, Gesù, con la propria resurrezione, ritorna ad allontanarsi dall’uomo, superando la sua stessa incarnazione, oltre al fatto che, essendo vissuto storicamente in tempi anteriori, nessun vivente ha potuto assistere al miracolo di un Dio che è ormai separato dalla storia e lontano dai credenti. Pertanto, la scissione è tutt’altro che risolta, e la coscienza, sentendosi ancora separata dall’Assoluto, permane nell’infelicità, che si manifesta attraverso la devozione (l’uomo si umilia riconoscendo Tutto in Dio e Niente in sé), le opere di bene (attraverso cui l’uomo spera di congiungersi con Dio) e la mortificazione di sé e del proprio corpo (con le pratiche ascetiche). Nasce così la pretesa della scienza di conquistare l’Assoluto tramite l’osservazione scientifica della realtà e dalla ragione osservativa si passa a quella pratica, ma è un intento destinato a fallire: l’individualità, infatti, pur mirando a raggiungere la propria realizzazione, rimane astratta e inadeguata. La ragione, però, nel passaggio di Hegel dal soggetto all’universale, se estesa alla vita dei popoli, diventa Spirito, cioè i valori della cultura e delle istituzioni, e quindi di tutto ciò che nasce dalle relazioni tra gli uomini nella società e nella storia. Lo Spirito è l’idea in sé e per sé (sintesi) che, dopo essersi fatta natura, ritorna presso di sé nell’uomo, inteso come civiltà o gruppo umano. È, però, l’anima bella a realizzare una vera e propria rivoluzione morale, poiché è in grado di armonizzare il suo comportamento istintivo con i dettami della legge, inserendo il suo agire particolare nell’ambito dell’universale. Tuttavia, nel mantenere la sua purezza originaria, essa vive distaccata dal mondo reale. Il Sapere assoluto, invece, è ormai libero da ogni legame con le rappresentazioni sensibili, che non inficiano la sua purezza. Io = Io indica come il soggetto non sia altro che «identità dell’identità e della non-identità»: il soggetto, quindi, ingloba in sé l’oggetto e lo conosce completamente senza separarlo da sé. Le esperienze passate sono state essenziali e in ognuna di esse c’era già il Sapere assoluto, anche se la coscienza finita, presuntuosa e immediata, non se n’era accorta. Il percorso della fenomenologia hegeliana, quindi, ha compiuto il proprio percorso verso la vera scienza, intesa come sinonimo di filosofia speculativa. In altre parole, lo Spirito diviene Sapere, libero da qualsivoglia limitazione, in quanto si sa Spirito.