Albert Camus, la peste
Il romanzo capolavoro dello scrittore, filosofo e saggista francese impressiona per la precisione con la quale descrive gli stati d’animo delle persone prima, durante e dopo l’epidemia
Come tutti i libri di epoche passate che, per atmosfera o contenuti, richiamano le condizioni che si stanno vivendo, anche La peste di Albert Camus può produrre un effetto straniante. Nel capolavoro dello scrittore, filosofo e saggista franco-algerino, infatti, non solo ci si addentra in un viaggio nella miseria che ogni pandemia porta con sé, ma si rivivono tutti gli stati d’animo che si insinuano negli uomini in circostanze disperate, ripercorrendo una ad una le tappe che la mente umana attraversa per affrontarle, dal rifiuto, all’angoscia, passando per il terrore, fino alla rassegnazione.
Leggere o rileggere dunque La peste dopo aver vissuto l’esperienza del Covid-19 significa anche vedere impresse nero su bianco molte delle emozioni e delle reazioni sperimentate sulla nostra pelle. A partire da quella tipica illusione delle prime fasi delle epidemie, che fa credere sia tutto surreale, come un incubo da cui si è certi ci si risveglierà: “[…] e invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare".
Il libro
Romanzo vincitore del Prix des Critiques nell’anno della sua pubblicazione, il 1947, e grande successo internazionale, La peste si presenta come la cronaca dell’epidemia che investe la città algerina di Orano negli anni Quaranta del secolo scorso. L’opera è composta da cinque parti nelle quali si incrociano le vite di diversi personaggi, dal medico Bernard Rieux, che per mantenere la lucidità necessaria a fronteggiare l’epidemia arriva quasi a privarsi del sonno per imparare a ragionare con freddezza e a sopprimere qualsiasi slancio emotivo, all’enigmatico Jean Tarrou, figlio ribelle del procuratore, dal modesto impiegato Joseph Grand, che si mette a disposizione per aiutare con la totale umiltà di chi non aspira all’eroismo, al giornalista straniero Raymond Rambert, che si è trovato bloccato a Orano e sogna di tornare nel proprio paese, passando per padre Paneloux, che si fa carico di uno degli spunti di riflessione più controversi del romanzo, se per il cristiano esista o meno una differenza tra un male necessario e un male inutile, e anche per chi, grazie alla peste, si arricchisce, come Cottard, per il quale l’epidemia costituisce una paradossale occasione di riscatto, perché vede negli occhi degli altri un terrore a lui familiare, e questo gli dà conforto. A far da contorno, tutta una serie di anonime figure e gli abitanti di una città isolata, soggetta a restrizioni sempre più ferree. Alla descrizione dell’epidemia e delle sue conseguenze dunque, si sovrappongono riflessioni in ordine sparso sull’esistenza umana e sulla libertà, intesa non in senso assoluto, ma in quanto conquista di una rivolta basata sulla coscienza comunitaria. La peste mette quindi a confronto l’individuo e la collettività e lo fa attraverso un evento che rompe l’ordine naturale delle cose e che finisce per sovrastare tutto.
“Se Rieux fosse stato più riposato, quell’odore di morte diffuso ovunque avrebbe potuto renderlo sentimentale. Ma quando si è dormito solo quattro ore, non si è sentimentali. Si vedono le cose per quello che sono, si vedono cioè dal punto di vista della giustizia, dell’orrenda e derisoria giustizia"
Trama
Il romanzo si apre con il celebre incipit che recita “un giorno d’aprile del 194…" e la scena si colloca ad Orano, nell’allora Algeria francese. Una cittadina mercantile tranquilla e anonima, senza alberi né giardini e piccioni, nella quale l’arrivo della primavera è annunciato solo dai fiori arrivati da fuori in vendita al mercato. Tutti i suoi cittadini sono dediti al lavoro ed agli affari e il tempo libero lo trascorrono nei caffè o passeggiando per i viali, se non affacciati ai balconi.
La narrazione è in terza persona ed il cronista alla fine si rivelerà essere lo stesso protagonista del romanzo, il medico francese Bernard Rieux, che appare già nelle prime battute del libro mentre accompagna la moglie, gravemente malata, alla stazione di Orano, dove prenderà un treno per andare a curarsi in una non meglio precisata località. Tornando a casa, il dottore incontra l’anziano portiere del condominio ove risiede, Michel, che gli racconta di aver trovato un topo morto. Di lì a pochi giorni, i ratti rinvenuti saranno migliaia, in ogni angolo della città, ma l’evento suscita solamente stupore, senza far scattare alcun campanello d’allarme, giacché nessuno immagina il flagello che sta per travolgere Orano e stravolgere le vite dei suoi abitanti. Almeno fino a quando in città iniziano a moltiplicarsi i casi di persone in preda ad una violenta febbre e che presentano gli stessi sintomi: rigonfiamenti e noduli all’altezza dell’inguine e delle ascelle e macchie scure sul corpo. I decessi avvengono dopo una delirante e breve agonia. Tra le vittime anche Michel, il portiere di casa Rieux, che insieme all’anziano collega Castel, di ritorno da un viaggio in Cina, riconosce i segnali della peste bubbonica.
L’allarme lanciato dai due medici, però, viene inizialmente ignorato e addirittura sminuito dalle autorità, che temono di ingenerare un panico incontrollato nella popolazione. L’epidemia è però ormai iniziata e quando si manifesta in tutta la sua virulenza, da Parigi arriva l’ordine di chiudere Orano con un cordone sanitario, al fine di impedire il propagarsi dei contagi.
Le reazioni dei cittadini di fronte al lock-down sono le più disparate, c’è chi fa finta di niente e decide di non rinunciare alla propria vita, riempiendo ogni giorno bar e ristoranti, mentre a teatro va in scena a ripetizione la rappresentazione di una compagnia di attori rimasti bloccati dall’isolamento forzato. Ma c’è anche chi vive con terrore la situazione e si barrica in casa temendo di rimanere infettato.
In questo contesto schizofrenico, a tenere la barra dritta è il dottor Rieux, che nonostante le preoccupazioni per la moglie malata, dalla quale ora è obbligato a restare separato, si dedica anima e corpo alla cura degli appestati, con l’aiuto di quello che può essere considerato il co-protagonista del romanzo, Jean Tarrou, che però non è un medico, ma il figlio di un pubblico ministero francese, spinto dal genitore proprio alla pratica forense. Un destino al quale il giovane Jean si ribella, dopo aver assistito ad una feroce arringa del padre durante un processo penale, conclusosi con la condanna a morte dell’imputato e la somma soddisfazione paterna. Una freddezza che agghiaccia Tarrou e lo spinge a rinunciare alla carriera per lasciare la Francia e girare il mondo. Una caratteristica del personaggio è quella di portare sempre con sé dei taccuini, sui quali metodicamente descrive l’evolversi della peste ad Orano. Il suo contributo nell’emergenza è quello di istituire un corpo di volontari che si occupa del trasporto degli appestati e dei morti.
Attorno ai due personaggi principali, ruotano poi diverse figure che entrano di diritto nella storia. Joseph Grand è un modesto impiegato comunale, tutto preso dalla stesura di un’opera letteraria che resta sempre ferma alla prima frase, sulla quale non riesce proprio a convincersi. Cottard è un commerciante di scarso successo, che dopo aver tentato il suicidio, trova una sorta di riscatto, arricchendosi lucrando sulla carenza di generi di prima necessità. Padre Paneloux è un gesuita, che ricorda nelle sue prediche come la peste sia una punizione mandata in terra da Dio per punire le colpe degli uomini. Raymond Rambert, infine, è un giovane giornalista francese, rimasto prigioniero nella città blindata e che implora Rieux di aiutarlo ad uscire da Orano, per tornare in patria e ricongiungersi con la donna amata, ma che quando avrà l’occasione per fuggire, non lo farà, colpito dalle parole di Tarrou, che gli fa notare l’abnegazione del dottor Rieux, impegnato a prestare instancabilmente soccorso ai malati nonostante il turbamento per le condizioni della moglie lontana, inducendolo a cambiare idea e decidere di unirsi al corpo dei volontari.
Intanto però, l’epidemia dilaga e con l’arrivo dell’estate, la peste bubbonica degenera nella forma polmonare, ancora più grave e altamente contagiosa e anche le scuole attrezzate ad ospedali di fortuna si riempiono di ammalati. Il numero dei morti lievita e le autorità cittadine sono costrette a cercare nuovi spazi in cui scavare le fosse comuni.
L’autunno è crudele, con la falsa speranza suscitata dall’antidoto sviluppato dal dottor Castel, che però sperimentato sul piccolo figlio del giudice Othon, già malato di peste, non dà i risultati sperati, con la morte del bambino tra atroci sofferenze sotto gli occhi di Rieux, Tarrou e di padre Paneloux, che di lì a poco renderà anche lui l’anima a Dio.
Ogni speranza appare ormai vana e Orano sembra rassegnata al peggio, i suoi abitanti si rinchiudono in casa e gli stessi Rieux e Tarrou, ormai legati da una profonda amicizia, staccano per un attimo da una realtà che non riescono a controllare malgrado i loro sforzi, concedendosi un bagno notturno in mare per lavarsi da quella sensazione di impotenza.
Arriva il Natale ed è il turno di Grand: l’impiegato viene contagiato ma, quando ormai sembra in punto di morte, Rieux fa un ultimo tentativo, somministrandogli l’ultima versione del siero, che incredibilmente funziona. Nel frattempo, per le strade, riappaiono i ratti e la peste inizia a perdere virulenza, ma fa in tempo a portarsi via Othon e, soprattutto, Tarrou, che tradito da un eccesso di confidenza, omette le quotidiane abluzioni con i disinfettanti e viene contagiato. Rieux, disperato per la notizia della morte della moglie, tenta di salvare l’amico in tutti i modi, ma invano.
L’epidemia regredisce fino a scomparire e Orano, finalmente liberata dal cordone sanitario, esplode in festa. Chi non gioisce è Cottard, che vede la fine dei suoi lucrosi affari e che, colto da un raptus di follia, apre il fuoco sulla folla, prima di essere arrestato dalla gendarmeria.
Rieux si rivela come narratore del racconto, scritto grazie ai taccuini ricchi di appunti e annotazioni lasciatigli da Tarrou, sulla base dei quali ammonisce le autorità sulla necessità di una prevenzione contro un eventuale futuro ritorno della peste, i cui bacilli possono restare inerti per anni prima di colpire ancora.
Analisi
Al di là della sua trama, il romanzo La peste di Camus è una vasta allegoria della condizione umana, che viene analizzata attraverso la descrizione di una città isolata da una epidemia. È di fronte alla crudeltà di una morte che non risparmia nessuno, che si fa strada la convinzione che la peste prima che un evento patologico, sia una malattia morale che ogni gruppo sociale cova al suo interno, alimentandola con l’odio, l’indifferenza e l’ingiustizia.
Il lock-down di Orano, con la chiusura del ponte d’accesso alla città, simboleggia il ghetto in cui tutti gli uomini vivono la loro disperata prigionia, ma allo stesso tempo insegna che l’unica salvezza sta nella solidarietà dei sani, ovvero i buoni, i liberi, verso gli appestati, i cattivi, i non-liberi.
I personaggi del racconto, tutti diversi tra loro e ciascuno in fondo racchiuso nel proprio universo di angoscia, riescono nell’epidemia a trovare il coraggio di combattere la peste, un coraggio che non ha nulla di eroico, ma che è figlio semplicemente di quella buona volontà che gli uomini possiedono più di quanto si sia comunemente portati a credere.
E se è vero che “il bacillo della peste non muore mai", lo è altrettanto che “ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare".