Ho sceso dandoti il braccio: testo, parafrasi e analisi
È il componimento con il quale il Premio Nobel per la Letteratura torna dopo un lungo silenzio, per dedicare un commovente saluto alla moglie scompars
Emozionante, a tratti struggente, la poesia intitolata “Ho sceso dandoti il braccio” è una delle liriche più conosciute di Eugenio Montale, dedicata alla memoria della moglie, Drusilla Tanzi. Con questo componimento, il Premio Nobel per la Letteratura nel 1975, torna alla poesia dopo un lungo silenzio, seguito alla pubblicazione de “La Bufera e altro”, nel 1956, ultima produzione prima di un lungo periodo dedicato al suo “secondo mestiere”, quello di giornalista culturale e di critico musicale sulle colonne del Corriere della Sera e del Corriere d’Informazione.
“Ho sceso dandoti il braccio” fa parte di una delle ultime raccolte poetiche dell’autore, “Satura”, pubblicata nel 1971 e composta dalle poesie scritte tra il 1962 e il 1970, che consta di un prologo e di quattro sezioni: Xenia I e Xenia II, ciascuna di quattordici componimenti, e Satura I e Satura II, più numerose.
Il termine greco “xenion”, significa “dono”, e i contenuti aprono il cassetto delle memorie private di Montale, rivisitate con uno stile prosaico e colloquiale, in cui il pathos si mescola ad una visione più ironica della vita e dei suoi accadimenti, figlia del distacco e dalla disillusione maturati dal poeta dopo la morte nel 1963 della sua adorata “Mosca”, il nomignolo con il quale chiamava la moglie.
Testo
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue”.
Parafrasi
“Ho sceso, tenendoti sottobraccio, moltissime scale, e adesso che non ci sei più mi sembra di cadere ad ogni gradino. Nonostante la lunga vita trascorsa insieme, è stata troppo corta. La mia vita continua ugualmente, non ho più la necessità delle coincidenze dei treni, delle prenotazioni degli alberghi, delle trappole di tutti i giorni, e le delusioni di chi è convinto che la realtà sia solo quella che appare agli occhi.
Ho sceso, tenendoti sottobraccio, tantissime scale con il tuo aiuto, non perché con quattro occhi si veda meglio. Le ho scese insieme a te perché sapevo che tra noi due, benché i tuoi occhi fossero “offuscati”, l’unica a saper vedere davvero la vita, eri tu”.
Analisi
Nei versi di “Ho sceso, dandoti il braccio”, Montale descrive con tenerezza la figura della moglie, ricordandone il buon senso e la saggezza ed evocando la centralità che rappresentava nella vita stessa del poeta, per il quale nulla appare più avere un senso, a partire dai piccoli gesti quotidiani, che compiuti ora in solitudine, appaiono svuotati di tutta la carica simbolica assunta all’interno della dinamica di coppia.
Il “dandoti” iniziale conferisce da subito il tono intimo e colloquiale che caratterizzerà l’intera poesia, mentre l’iperbole del “milione di scale” sottolinea la lunghezza della vita vissuta insieme alla compagna, in un viaggio racchiuso dall’ossimoro “breve/lungo”, che sintetizza tutto lo sgomento procurato dal rendersi conto che, in ogni caso, è terminato per sempre. “La realtà” che si vede, considera il poeta, non lo riguarda più.
Nella seconda strofa, poi, l’autore entra in diretto contatto con l’amata, all’interno di una dinamica privata nella quale era Drusilla, nonostante il disturbo agli occhi che l’aveva resa praticamente cieca, a distinguere la realtà vera da quella apparente molto meglio del poeta.
In questa commossa e tenera rievocazione della moglie scomparsa, è perfettamente rappresentato lo stile di Montale, sempre semplice e concentrato sulle vicende concrete della vita, che in questo caso si intersecano agli inafferrabili temi dell’amore e della morte. Il suo atto di dolore non ha nulla di manieristico, non è urlato, né ammantato di altro che non sia il dolore stesso, ma anzi quasi pudico e dimesso, sferzato solo dall’ironia che gli consente di continuare a vivere un’esistenza privata di senso. Non c’è una donna ideale e salvifica cui appellarsi, come la Clizia de “La Bufera”, ma ve n’era una, che ora non c’è più, e che era essenziale per il mantenimento dell’equilibrio del poeta.