Umberto Eco: il nome della Rosa
È il libro più celebre del grande scrittore, un successo planetario, che ha ispirato film, serie TV e rappresentazioni teatrali
Inserito tra i 100 libri del secolo dalla rivista francese Le Monde, “Il nome della rosa” è uno tra i romanzi più celebri scritti da Umberto Eco. Capolavoro senza tempo, il libro resta uno dei capisaldi della letteratura italiana. Fin da subito un successo senza eguali per critica e pubblico: la prima edizione risale al 1980 da parte di Bompiani, ma il romanzo è stato successivamente adattato per radio, teatro, cinema e la TV. Ristampato innumerevoli volte, tradotto in più di quaranta lingue, con oltre cinquanta milioni di copie vendute, il capolavoro di Eco ha inoltre vinto il Premio Strega nel 1981.
Trama
Il romanzo è ambientato nel 1327 in un monastero benedettino dell’Italia settentrionale ed è narrato in prima persona dal protagonista, Adso da Melk, che ormai anziano racconta le vicende accadute al monastero, e le indagini condotte dal suo maestro, Guglielmo da Baskerville.
L’intera vicenda si sviluppa in sette giorni, che Adso nelle sue memorie suddivide secondo la scansione del giorno della regola benedettina: mattutino e laudi, ora terza, ora sesta, ora nona, vespri, compieta.
Guglielmo da Baskerville è un monaco inglese, nonché un ex inquisitore, seguace del filosofo Ruggero Bacone, che ha ricevuto l’incarico di fare da mediatore in un incontro tra i francescani, protetti dall’imperatore Ludovico il Bavaro, e gli emissari del papa di Avignone, Giovanni XXII.
Durante la permanenza nell’abbazia del monaco inglese e il suo giovane allievo, vengono uccisi sette monaci in una settimana. Tutti i delitti sembrano ruotare attorno alla biblioteca del monastero, che nasconderebbe un misterioso segreto. Ad indagare è chiamato anche l’inquisitore Bernardo Gui, che condanna al rogo due monaci, ex eretici dolciniani, e una donna, accusati degli omicidi senza avere prove valide.
Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, però, scopriranno il vero responsabile e il movente: le morti sono opera dell’ex bibliotecario cieco Jorge da Burgos, che ha voluto impedire la lettura di un testo secondo lui pericolosissimo. Si tratta del secondo libro della “Poetica di Aristotele”, un tomo ritenuto perduto dedicato alla commedia e al riso. “Il riso uccide la paura e senza la paura non ci può essere la fede”, la frase emblematica di Jorge, talmente convinto che una tale lettura avrebbe potuto danneggiare la cristianità, da decidere di avvelenare le pagine del libro in questione, in modo tale che chiunque avesse ingerito l’inchiostro, era usanza leccarsi le dita prima di voltare le pagine, sarebbe morto. D’altro canto, il suo personaggio non vedente è in realtà la metafora di una fede cieca, che non ammette compromessi.
Una volta scoperto, il bibliotecario preferirà morire: nel tentativo disperato di cancellare ogni traccia del manoscritto ne inghiottirà le pagine e nell’agonia causerà accidentalmente un incendio, che distruggerà l’intera abbazia.
Analisi
Per sottolineare che “Il nome della rosa” è una storia fittizia, Umberto Eco utilizza l’espediente narrativo del ritrovamento dell’antico manoscritto, che facendo riferimento ad un testo più volte trascritto e tradotto, con molteplici errori di copiatura, insinua che nulla può essere ritenuto vero.
L’opera si presenta dunque come un romanzo complesso, apparentemente un “giallo”, che in realtà nasconde tra le sue pieghe un continuo rimando alla citazionistica, dai classici latini alla letteratura medievale, dai romanzi ottocenteschi alla cultura dei mass-media.
Ispirato ai “Promessi sposi” di Manzoni, le cui vicende ed i cui personaggi di fantasia vengono calati in un contesto ben determinato, anche “Il nome della rosa” si configura come un romanzo storico, tramite il quale l’autore ricostruisce l’Italia medievale delle controversie religiose e degli scontri tra Papato e Impero, inserendo nella logica del racconto anche figure storiche, come l’imperatore Ludovico il Bavaro o fra Dolcino.
La parte giallistica, caratterizzata tipicamente dai delitti e le conseguenti indagini, ha invece un evidente rimando ad una delle più famose investigazioni dello Sherlock Holmes contenute nel romanzo di Arthur Conan Doyle, “Il mastino dei Baskerville”. Come Guglielmo da Baskerville, il monaco inglese co-protagonista de “Il nome della rosa”, che alla stregua dell’omologo inglese utilizza il metodo deduttivo, basato sulla ragione e la scienza, per arrivare ad accertare la verità. Solamente il finale si discosta dal canonico canovaccio, perché il colpevole in realtà sfugge alla cattura, dandosi la morte e portando con sé il manoscritto di Aristotele.
Ci sono poi da analizzare i diversi livelli di lettura del romanzo, tramite i quali Eco coinvolge il lettore, quasi sfidandolo a trovare i diversi riferimenti filosofici, letterari e metanarrativi disseminati tra le pagine del libro. Al dipanarsi della trama infatti, si alternano le riflessioni filosofico-semiologiche dello stesso autore, che, riprendendo l’espediente iniziale dell’antico manoscritto, evidenzia la pluralità delle letture possibili di ogni testo, compreso il suo. Centrale nella sua riflessione è dunque l’opposizione tra il Medioevo, con i suoi dogmi, le rigide regole e le sue superstizioni oscure, e la Modernità, alimentata da sete di conoscenza, spirito critico e ricerca della verità.