Orazio, vita e opere del poeta romano
Turbato e angosciato dal pensiero della morte, lo scrittore affronta le sue paure con ironia, votandosi a una visione epicurea dell’esistenza ed esortando al “carpe diem”
Epicureo e vero amante dei piaceri della vita, Orazio è considerato uno dei maggiori poeti dell’età antica. Dotato di un’ironia fuori dal comune, è considerato ancora oggi un maestro di eleganza stilistica per come ha fronteggiato le questioni sociali e politiche del suo tempo, dettando quelli che ancora oggi sono considerati da molti i canoni dell’ars vivendi. Tormentato da dilemmi esistenziali cui non riesce a trovare risposta, amerà la vita per non pensare alla morte, che percepirà sempre come un qualcosa di angosciante ed imminente.
Vita
Quinto Orazio Flacco nasce a dicembre del 65 a.C. in Basilicata, a Venosa, una colonia romana situata in posizione strategica. Il padre è un fattore, che decide di trasferirsi a Roma per diventare coactos, un esattore delle aste pubbliche, mansione molto redditizia. Orazio così, nonostante le umili origini, cresce in condizioni economiche agiate, che gli consentono, ventenne, di recarsi ad Atene per studiare la filosofia e il greco e di venire per la prima volta a contatto con la dottrina epicurea.
Tornato a Roma, combatte nella guerra civile esplose in seguito alla morte di Cesare, arruolandosi nell’esercito di Bruto. Dopo la sconfitta di Filippi, nel 42 a.C., contro le truppe di Ottaviano, è costretto a lasciare l’Italia fino all’amnistia dell’anno successivo e si vede sequestrare il podere del padre, ritrovandosi d’un colpo in una difficile situazione economica.
Inizia allora a lavorare come segretario di un questore e contemporaneamente si dedica alla scrittura di versi, che in poco tempo gli fanno guadagnare un discreto successo.
Nel 38 a.C., Vario e Virgilio, che lo hanno conosciuto nelle scuole epicuree di Sirione, lo presentano a Mecenate, che lo ammette nel suo circolo, consentendogli di tornare a dedicarsi esclusivamente alla letteratura.
Fra il 33 e il 35 a.C, nel primo libro delle “Satire”, Orazio, in aperta polemica con gli eccessi delle società sue contemporanee, cerca di elaborare un modo di vivere che costituisca un giusto mezzo, una morale di libertà e di autosufficienza, che consenta di godersi la vita, sfuggendo alle tensioni interne.
Nel 33 a.C. Orazio riceve da Mecenate un piccolo possedimento in Sabina, grazie al quale il poeta può lasciare la città e tornare a stare in campagna seguendo il modus vivendi promosso da Epicuro. In questo nuovo contesto realizza gli “Epodi” e il secondo libro delle “Satire”.
Nel 23 a.C., produce ben ottantotto componimenti, che raccoglie in tre diversi libri nelle “Odi”, dalle quali sono tratti i celebri detti “Carpe Diem” e “Hic et nunc”.
Nel 13 a.C. Orazio realizza il quarto libro delle “Odi”, contenente altri quindici componimenti, e viene pubblicato il secondo libro delle “Epistole”, contenente l’”Ars Poetica”, la celebre lettera ai Pisoni.
Muore l’8 a.C. a Roma, a cinquantasette anni, e il suo corpo viene sepolto sul colle Esquilino, al fianco di quello di Mecenate.
Pensiero
Pur non avendo mai abbracciato pubblicamente una specifica corrente filosofica, è forte ed evidente il legame con l’epicureismo, che professa l’atarassia, la totale assenza di paura e di desiderio a favore di una vita vissuta in equilibrio, con moderazione e amando la campagna. Anche la metriotes, la morale del giusto mezzo, e l’autarkeia, l’indipendenza interiore, sono principi cardine del suo pensiero. La vita, per Orazio, è il rifugio da quella morte che tanto teme e al cui sol pensiero viene attanagliato da angoscia e malinconia ed è questa l’affascinante ambiguità di un personaggio, molto diverso da come vuole apparire agli occhi degli altri.
Odi
I temi fondamentali affrontati da Orazio nelle Odi sono l’equilibrio, la serenità e il distacco dalle passioni. E’ in questi componimenti che divengono evidenti i legami con gli stoici e ancor più con gli epicurei. La poetica dell’hic et nunc trova la sua più celebre espressione con l’ode 1,11, quella del “carpe diem”. Attraverso questo carmen il poeta esorta Leuconoe a imparare a cogliere l’attimo fuggente e a trarne tutto il beneficio possibile, senza preoccuparsi di fare progetti a lunga scadenza, che in caso di fallimento sarebbero fonte di delusione e di infelicità. Chi invece non coltiva aspettative e speranze, è capace di apprezzare tutto quel che gli capita ed è dunque felice.
Carmen saeculare
Nel 17 a.C., Orazio viene incaricato di scrivere, in onore di Apollo e Diana, il “Carmen saeculare”, da cantare nella solenne occasione dei “ludi saeculares”, che in quell’anno sanciscono ufficialmente l’inizio della “Pax Augusta”. Si tratta di un inno in 19 strofe saffiche, composte cioè da tre endecasillabi saffici minori e da un adonio di 5 sillabe, una forma metrica che verrà poi ripresa da Catullo. Il 3 giugno del 17 a.c., sia sul Palatino che sul Campidoglio, un coro di giovani fanciulle celebra la venuta dell’età dell’oro preannunciata dalla IV ecloga di Virgilio. Lo stile del componimento è aulico e solenne con un carattere rituale e religioso, caratterizzato da frequenti invocazioni ad Apollo, a Diana, al Sole, a Ilizia, alle Parche e alla Terra, e concluso dal panegirico di Augusto, considerato discendente della Dea Venere. Qui Orazio si fa entusiasta interprete dell’ideologia augustea e della grandezza di Roma, esprimendo l’augurio che il potere della caput mundi non cessi mai, come la prosperità del suo popolo. Nonostante il tono solenne, il carme risulta leggero e scorrevole, mai stucchevole, magistrale nella costruzione della preghiera che diventa un inno a Roma e alla vita.
Satire
Composte da un Orazio ironico e attento osservatore degli altri e dei suoi tempi, le Satire sono quasi tutte realizzate in forma di dialoghi piacevoli e divertenti, veloci ed eleganti, tramite i quali lo scrittore dipinge un affresco della società romana vista nel quotidiano, tra personaggi ambiziosi e ingenui, vanitosi e viziosi, adulatori, infidi e parassiti. Tra il faceto e l’ironico, portano avanti la filosofia del “giusto mezzo”, mettendo in guardia dagli eccessi, che portano al ridicolo, allo sconvolgimento dell’animo e alle disavventure.