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Falcone e Borsellino, biografia dei due magistrati

Assieme ai colleghi e amici Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto sono considerati due fra le più influenti personalità italiane nella lotta alla mafia: nel 1992 furono entrambi vittime di Cosa Nostra, l'uno nella strage di Capaci, l'altro in quella di via D'Amelio

Alessio Abbruzzese

Alessio Abbruzzese

GIORNALISTA

Nato e cresciuto a Roma, mi appassiono fin da piccolissimo al mondo classico e a quello sport, dicotomia che ancora oggi fa inevitabilmente parte della mia vita. Potete leggermi sulle pagine de Il cuoio sul Corriere dello Sport, e online sul sito del Guerin Sportivo. Mi interesso di numerosissime altre cose, ma di quelle di solito non scrivo.

Falcone e Borsellino, dall’infanzia a Kalsa alla magistratura

Giovanni Salvatore Augusto Falcone nacque a Palermo il 18 maggio 1939 da Arturo, direttore del laboratorio chimico di igiene e profilassi del capoluogo siciliano, e Luisa Bentivegna, a sua volta figlia di un noto ginecologo della città. Insieme ai genitori e alle sorelle maggiori Anna e Maria dovette abbandonare il quartiere della Kalsa a causa dei bombardamenti della II Guerra Mondiale, per farvi ritorno tre anni più tardi. Sempre a Palermo, il 19 gennaio del 1940, nacque invece Paolo Emanuele Borsellino, da Diego e Maria Pia Lepanto, secondogenito della coppia dopo Adele. I due futuri magistrati si conobbero a 13 anni, giocando a calcio all’Oratorio ed instaurarono una sincera e indissolubile amicizia. Si iscrissero entrambi, tra il 1957 e il 1958, alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo, laureandosi con 110 e lode l’uno con una tesi sull’Istruzione probatoria in diritto amministrativo, l’altro sul fine dell’azione delittuosa. Nel 1963 Borsellino divenne il più giovane magistrato d’Italia, ‘raggiunto’ l’anno dopo da Falcone, un traguardo ‘festeggiato’ con il matrimonio con la maestra elementare Rita Bonnici. Nel 1968, invece, Borsellino si unì in matrimonio con Agnese Piraino Leto, figlia di Angelo, a quel tempo presidente del tribunale di Palermo. A seguito della morte del padre, nel 1976, Falcone visse un radicale cambiamento, tanto interiore quanto ideologico, abbracciò i principi del comunismo sociale di Berlinguer, per avvicinarsi successivamente al socialismo di Bettino Craxi e Claudio Martelli: una trasformazione che non scalfì l’atavica amicizia con Borsellino, proveniente invece da una famiglia di destra. Divennero ufficialmente colleghi nel 1979 quando, dopo l’omicidio del giudice Cesare Terranova, Falcone accettò l’offerta di Rocco Chinnici e passò all’Ufficio istruzione della sezione penale, dove Borsellino lavorava già da quattro anni. Furono i processi Spatola e Mafara a conferire una caratura internazionale a Giovanni Falcone, grazie ad un innovativo metodo che da quel momento porterà il suo nome: ricostruì il percorso del denaro che accompagnava i traffici di droga tra Sicilia e Stati Uniti, risalì ai ‘confini’ di Cosa Nostra e diede il via ad una fruttuosa collaborazione con la Dea e l’Fbi.

Falcone e Borsellino, il pool antimafia e il periodo all’Asinara

Nel 1983, dopo l’assassinio di Chinnici, il suo successore Antonino Caponnetto formò il famoso pool antimafia costituito, oltre che da Falcone e Borsellino, da Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Per Falcone la svolta fu l’arresto di Tommaso Buscetta: volò in Brasile per ottenere la sua disponibilità a collaborare, primo mafioso della storia italiana ‘amico’ della giustizia. Borsellino, invece, seguì l’indagine connessa sui cosiddetti “delitti eccellenti”, cioè quelli consumati contro numerose personalità dello Stato, e sugli omicidi compiuti dalla cosca di Corso dei Mille. Già nel 1985 si iniziò a temere per la vita dei due magistrati, i quali, dopo essere stati messi sotto scorta, furono trasferiti per motivi di sicurezza con le rispettive famiglie presso la foresteria del carcere dell’Asinara, dove terminarono la scrittura di oltre ottomila pagine della colossale ordinanza-sentenza che porterà al famoso maxiprocesso di Palermo, terminato con 360 condanne per complessivi 2.665 anni di carcere e 11,5 miliardi di lire di multe. Nel 1986 Borsellino venne nominato Procuratore della Repubblica di Marsala e lasciò il pool, la cui fine si concretizzò due anni più tardi quando, un po’ a sorpresa, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Antonino Meli, anziché Falcone, al posto di Caponnetto. Borsellino lanciò l’allarme su diversi giornali, ma le sue grida rimasero inascoltate e l’amico, di fatto ‘scaricato’ dalla giustizia italiana, e a cui fu negata anche la guida dell’Alto Commissariato per la lotta alla Mafia, divenne un facile bersaglio per la mafia, come dimostrato dal fallito attentato dell’Addaura del 21 giugno 1989, quando alcuni mafiosi piazzarono un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli scogli, a pochi metri dalla villa affittata dal giudice per le vacanze. Poco dopo, una serie di lettere anonime calunniarono numerosi magistrati, tra cui Falcone, accusato di aver favorito il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno, al fine di sterminare i Corleonesi, passarono alla storia come la “vicenda del corvo”. Nel 1990 ebbe modo di ‘riscattarsi’ coordinando un’altra importante inchiesta insieme all’FBI, che portò all’arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani legati alle potenti famiglie Madonia e Galatolo di Resuttana, quindi alla ‘Duomo Connection’, che aveva come oggetto l’infiltrazione mafiosa in Lombardia.

Falcone e Borsellino, le stragi di Capaci e di via D’Amelio

Il 23 maggio 1992, cinque giorni dopo aver festeggiato il 53° compleanno, Giovanni Falcone viene assassinato – insieme alla seconda moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani – viene assassinato in quella conosciuta come la strage di Capaci. Tornato in Sicilia da Roma, come ogni weekend, appena sceso dall’aereo si mise alla guida di una Fiat Croma bianca, dietro alla marrone di Vito Schifani e avanti all’azzurra di Paolo Capuzza. Le tre auto vennero seguite dal mafioso di Altofonte Gioacchino La Barbera, in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè, in osservazione sulle colline. Proprio Brusca, alle 17.58, azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 500kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada: la Croma marrone con a bordo Montinaro, Schifani e Dicillo, morti sul colpo, venne scagliata via dalla strada, finendo in un uliveto, quella bianca con Falcone e la consorte, che aveva tentato una manovra d’emergenza, si schiantò contro un muro di cemento e detriti e i due, senza cinture di sicurezza, vennero violentemente sbalzati contro il parabrezza. Falcone esalò l’ultimo respiro in ospedale, tra le braccia di Borsellino, che dichiarò: “Io ricordo ciò che mi disse Ninni Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: ‘Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano’“. Cinquantasette giorni dopo, il 19 luglio dello stesso anno, dopo aver pranzato a Villagrazia di Carini in compagnia della moglie Agnese e dei figli Manfredi – oggi vice-questore della Polizia di Stato – e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D’Amelio, per far visita alla madre e alla sorella Rita. Alle 16:58 una Fiat 126 – imbottita di tritolo e parcheggiata sotto l’abitazione – esplose al suo passaggio uccidendo, oltre al 52enne magistrato, anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo, che al momento dello scoppio stava parcheggiando una delle auto della scorta.