Leonid Breznev, chi era il leader sovietico
Segretario generale del Partito Comunista dal 1964 al 1982 e due volte a capo del Praesidium del Soviet Supremo, dal 1960 al 1964 e dal 1977 al 1982, in una prima fase politica contribuì alla crescita economica dell’URSS, ma nella seconda non seppe trovare le giuste contromisure alla dilagante crisi
Uno smodato nepotismo nella nomenklatura caratterizzò i suoi anni al vertice dell’Unione Sovietica, favorendo così la corruzione e un progressivo allontanamento della società civile dal partito. Grande appassionato di automobili, nonostante il famoso bacio con Honecker – tutt’oggi immortalato in un murale a Berlino – divenne l’immagine-simbolo della Guerra Fredda, Breznev alternò momenti di apertura nei confronti dell’Occidente ad altri di tensione, come a seguito dell’intervento in Cecoslovacchia e dell’invasione dell’Afghanistan.
Chi era Leonid Breznev
Leonid Breznev nacque nel 1906 a Kamenskoe, nell’attuale Ucraina e, nonostante si trasferì in Russia piuttosto giovane, mantenne per tutta la vita l’accento, gli usi e i costumi della sua terra d’origine. In quanto appartenente alla classe operaia – suo padre lavorava in un’industria dell’acciaio – subito dopo la Rivoluzione russa ricevette un’educazione tecnica in economia agraria e, soprattutto, in metallurgia: si diplomò infatti nell’Istituto di studi Metallurgici di Dniprodzerźinsk e si laureò in ingegneria metallurgica, lavorando poi per un breve periodo nel settore siderurgico nell’Ucraina orientale. Frequentò le organizzazioni giovanili del PCUS, il Komsomol, nel 1923, e – tre anni dopo aver sposato Viktoria Denisova – nel 1931 divenne membro dello stesso partito. Tra il ’35 e il ’36 prestò servizio militare, venne addestrato alla scuola carristi, divenne commissario politico in una compagnia di cavalleria corazzata e fu nominato direttore dell’Istituto Superiore Tecnico di Studi Metallurgici, prima di trasferirsi a Dnipropetrovsk, dove nel 1939 ricoprì la carica di segretario di partito, col compito di gestire le più importanti industrie militari presenti in città. Nel giugno 1941, però, l’Unione Sovietica fu invasa dalla Germania nazista e Breznev fu incaricato di organizzare l’evacuazione delle fabbriche verso l’Est russo. Quindi, venne prima reintegrato come commissario politico, poi posto a capo dell’amministrazione politica per l’intero Fronte Meridionale, col grado di Commissario di brigata. La sua carriera militare proseguì nei ruoli di capo dell’amministrazione politica del fronte transcaucasico durante l’occupazione tedesca dell’Ucraina (1942), di capo del dipartimento politico della XVIII armata, dove conobbe Krusciov, suo futuro alleato (1943), e – al termine della guerra – di capo commissario politico del IV Fronte Ucraino. Così, nel 1946, dopo aver lasciato l’Armata Rossa col grado di maggior generale ed aver lavorato su alcuni progetti per la ricostruzione in Ucraina, tornò alla vita civile come primo segretario a Dnepropetrovsk.
Breznev, la scalata al vertice
Diventato nel 1950 deputato del Soviet Supremo e primo segretario del PCM nella RSS Moldava, due anni più tardi Breznev divenne prima membro del Comitato Centrale del Partito Comunista e successivamente del Praesidium. La sua ascesa iniziò nel 1953, con la morte di Stalin, in seguito alla quale ottenne due ‘poltrone’ assai prestigiose: quella di capo del Direttorato Politico dell’Esercito e della Marina, con il grado di tenente generale, e – nel 1955 – quella di primo segretario del partito in Kazakistan. Richiamato a Mosca l’anno seguente, promosso a membro candidato del Politburo e incaricato dell’industria degli armamenti, del programma spaziale, dell’industria pesante e della loro amministrazione, durante questa fase diede supporto a Krusciov nella vittoriosa lotta alla vecchia guardia stalinista della leadership di partito. In cambio ottenne la nomina a membro del Politburo. L’ascesa al potere proseguì – nel 1959 – nel ruolo di secondo segretario del Comitato centrale e – nel maggio 1960 – fu promosso a presidente del Praesidium del Soviet Supremo e reso nominalmente capo dello stato. Seppur il potere fosse saldamente nelle mani di Krusciov, Breznev ebbe l’opportunità di viaggiare all’estero, restando ‘folgorato’ dagli abiti e – soprattutto – le automobili ‘occidentali’. Con l’uscita di scena dell’amico-mentore, ufficialmente per ragioni di salute ma, secondo alcune versioni, per una cospirazione da lui stesso guidata, nel 1964 divenne primo segretario del Comitato Centrale del PCUS (e, due anni dopo, segretario generale), ma cedette la carica di Presidente dell’URSS ad Anastas Mikojan. Il 22 gennaio 1969, poi, rimase miracolosamente illeso durante il corteo che lo accompagnava a Mosca preso a colpi d’arma da fuoco da Viktor Ilyin, un ex militare disertore.
La dottrina Breznev e gli ultimi anni
Già dal 1968 era in voga il termine ‘dottrina Breznev’. Si trattava, in altre parole, della politica estera attuata dal leader sovietico, particolarmente aggressiva – al punto da intervenire militarmente – nei confronti dei Paesi alleati del Patto di Varsavia i quali, di fatto, si trovavano in una condizione di sovranità limitata. Ne fu un esempio l’invasione della Cecoslovacchia che pose fine alla cosiddetta Primavera di Praga, cioè la liberalizzazione politica dal controllo dell’URSS perseguita da Alexander Dubček. Dopo un periodo di ‘avvicinamento’ all’Occidente, soprattutto con Francia e Germania, ma anche con gli accordi di Helsinki del 1975, già a partire dall’anno seguente, ritenendo che gli Stati Uniti stessero attraversando una fase di forte ridimensionamento, fece installare dei missili SS20 provvisti di testata nucleare nelle nazioni dell’Europa dell’Est: fu l’inizio dell’escalation nucleare, perché gli Usa replicarono con analoghe azioni nei Paesi alleati. Nel tentativo di ampliare la sfera d’influenza comunista nel mondo, a segnare una brusca rottura nei rapporti con i Paesi membri della Nato contribuirono anche il sostegno alle frange di estrema sinistra in Vietnam del Nord (oltre che in Medio Oriente, Angola ed Etiopia), l’invasione dell’Afghanistan del 1979 e la politica repressiva in Polonia nel 1981. Breznev ‘liberò’ la Jugoslavia dall’isolamento, tanto ideologico quanto politico, garantì agli Stati federati il diritto di libera secessione, che faciliterà la dissoluzione dell’Unione Sovietica, e cercò fino all’ultimo un approccio con la Cina finalizzato alla riapertura di alcuni negoziati. Del resto, i tre piani quinquennali varati – l’8° nel 1966, il 9° nel 1971 e il 10° nel 1976 – avevano mostrato un preoccupante rallentamento dell’economia del Paese. Molti studiosi, infatti, schematizzano la carriera politica di Breznev in due fasi: la prima, ‘positiva’, che ha contribuito ad un innalzamento del livello di vita della popolazione, e la seconda, quella della ‘stagnazione’, caratterizza da crisi produttiva e recessione. Già dal 1974 affetto da leucemia e carcinoma orale, oltre che di enfisema e di diversi disturbi cardiovascolari e circolatori, al punto da far continuamente correre voci circa una sua dipartita, Breznev per altri otto anni consolidò piuttosto il proprio potere, come dimostrano il successo nel XXV Congresso del partito, in cui fu nominato maresciallo dell’Unione Sovietica (1976), e la conferma alla presidenza del presidium del Soviet Supremo del 1977: per la prima volta nella storia il leader del partito e il Capo dello Stato erano la stessa persona. Un grave ictus lo colpì nel maggio del 1982, ma rifiutò di abbandonare le proprie cariche e mantenne gli incarichi fino al 10 novembre dello stesso anno, stroncato da un infarto. La sua morte fu annunciata simultaneamente da tv e radio alle 11 del mattino del giorno seguente, vennero indetti cinque giorni di lutto nazionale e subito dopo svolti i solenni funerali di Stato, alla presenza di 32 leader nazionali, 15 capi di Governo, 14 ministri degli Esteri e 4 principi. Breznev, invece, venne sepolto nella necropoli delle mura del Cremlino.