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La prima guerra d'indipendenza

Prima delle tre 'tappe' che portò all'Unità d'Italia, fu combattuta dal Regno di Sardegna e da molti volontari contro l'Impero austriaco e altre nazioni conservatrici dal 23 marzo 1848 al 22 agosto 1849

Paolo Marcacci

Paolo Marcacci

INSEGNANTE DI LETTERE, GIORNALISTA PUBBLICISTA, SPEAKER RADIOFONICO, OPINIONISTA TELEVISIVO

Ho trasformato in professione quelle che erano le mie passioni, sin dagli anni delle elementari. Dormivo con l'antologia sul comodino e le riviste sportive sotto il letto. L'una mi è servita per diventare una firma delle altre. Per questo, mi sembra di non aver lavorato un solo giorno in vita mia.

La prima fase della prima campagna

Il 1848 si aprì con una serie di tumulti, dalla rivoluzione siciliana scoppiata a Palermo contro il potere borbonico alle Cinque giornate di Milano contro l’impero austriaco. All’indomani di questo importante avvenimento che costrinse il maresciallo Josef Radetzky a lasciare la città lombarda, il 23 marzo 1848 il re di Sardegna Carlo Alberto attaccò gli Asburgo: la bandiera di guerra scelta fu un tricolore verde, bianco e rosso con lo stemma sabaudo al centro. Aderirono, poi, con un proprio contingente, anche lo Stato pontificio, il Granducato di Toscana, Parma, Modena e il Regno delle Due Sicilie, cui si aggiunsero volontari lombardi e veneti. Il 25 e il 26 marzo due avanguardie attraversarono il fiume Ticino entrando in territorio nemico, mentre il grosso dell’esercito, a partire dal giorno 29, entrò dapprima a Pavia acclamato dal popolo, quindi a Lodi, Cremona e Marcaria, per giungere alla fortezza più meridionale del Quadrilatero. Il primo vero scontro ci fu il 9 aprile nei pressi del ponte di Goito, dove rimase gravemente ferito il colonnello Alessandro La Marmora, fondatore dei bersaglieri, quindi, il 10, i piemontesi si impossessarono di quello di Monzambano e l’11 occuparono Valeggio, mentre gli austriaci abbandonarono definitivamente la sponda sinistra del Mincio raccogliendosi a Verona. L’esercito sabaudo, il 30, sfondò la linea austriaca a Pastrengo, ma la riva sinistra dell’Adige rimase saldamente nelle mani di Radetzky. Anche se il dì precedente il papa Pio IX aveva pronunciato l’allocuzione ‘Non semel’ durante il concistoro, con cui aveva sconfessato l’azione delle sue truppe in Veneto, queste ignorarono tale volontà e proseguirono la campagna. Il 6 maggio ci fu un nuovo, cruento scontro presso il cimitero di Santa Lucia a Verona, ma il successo piemontese fu ‘macchiato’ dai contemporanei fallimenti nei borghi di Croce Bianca e Chievo. Mentre Carlo Alberto combatteva nel Quadrilatero, nel Veneto si svolgeva una lotta parallela che rimase quasi completamente separata dalla campagna piemontese. La controffensiva austriaca, che aveva nel frattempo costretto alla resa Udine, portò alla ritirata dell’esercito pontificio a seguito della battaglia di Cornuda, che si riscattò nella strenua difesa di Vicenza tra il 17 e il 24 maggio. Se già dal 15 Ferdinando II aveva deciso, di fronte ai moti di Napoli, di ritirarsi dalla guerra ancor prima che le sue truppe avessero aperto il fuoco sul nemico, una piccola parte del corpo partenopeo raggiunse comunque Venezia, dove darà il suo prezioso contributo a favore della Repubblica di San Marco fino al termine delle ostilità.

La seconda fase della prima campagna

Il 25 maggio 1848 a Verona le forze di Thurn raggiunsero quelle di Radetzky e il 27 si misero in marcia 45mila uomini che, non senza difficoltà, riuscirono a sfondare prima a Curtatone, poi a Montanara e San Silvestro. Il sacrificio di 166 valorosi combattenti italiani, tuttavia, permise al comando piemontese di far affluire rinforzi a sud e attendere l’attacco austriaco a Goito, che si concretizzò – con un clamoroso fallimento austriaco – il giorno 30, cui si aggiunse quello – contemporaneo – a Peschiera. La doppia vittoria fu salutata dai presenti con il grido di “Viva il re d’Italia!”. Il 10 giugno Radetzky costrinse Vicenza alla resa, cui fecero seguito Padova, Treviso e Palmanova, ma l’occupazione di Rivoli rafforzò tatticamente l’ala sinistra dello schieramento piemontese, ma la indebolì strategicamente, in quanto troppo il fronte. Seguì un mese di quiete, durante il quale tornò dall’esilio in Sudamerica Giuseppe Garibaldi, accolto – il 4 luglio – con freddezza da Carlo Alberto. Il 16 gli austriaci occuparono Governolo, ricacciati due settimane più tardi da una brillante offensiva sabauda. Tra il 22 e il 27 luglio, però, l’esercito asburgico, in numero praticamente doppio rispetto a quello sabaudo, si impose nei passi sul Mincio di Salionze, Monzambano e Valeggio, nella battaglia di Custoza, a Sommacampagna e a Volta Mantovana. La mattina del 27, a Goito, un consiglio di guerra presieduto da Carlo Alberto decretò che si dovevano aprire le trattative con il nemico per una tregua, ma le condizioni di Radetzky – spostare l’esercito fino all’Adda e far tornare sotto il suo controllo Peschiera, Venezia, Osoppo e i ducati di Modena e Parma – portarono Carlo Alberto ad esclamare: “Piuttosto morire!”. Le truppe sabaude ritirarono verso l’Adda, seguite da quelle austriache, che ebbero la meglio, il 1° agosto, presso Crotta. Contro il volere di quasi tutti i suoi generali, Carlo Alberto volle assolutamente spostare l’esercito su Milano per non perdere i vantaggi dinastici acquisiti (il Governo provvisorio della aveva infatti sancito con un referendum l’annessione al Piemonte) ma, tenuto sempre a vista dal nemico, fu protagonista di una nuova sconfitta sullo stradone per Melegnano, che lo costrinse alla ratifica dell’armistizio, firmata dal generale Carlo Canera di Salasco il giorno 9, con cui si impegnò a liberare tutto il Regno Lombardo-Veneto. A disposizione del governo provvisorio meneghino si mise Garibaldi che, per nulla scoraggiato dall’armistizio, si mise a capo di una guerra di popolo. La sua prima – e al contempo vittoriosa – azione avvenne il 15 agosto a Luino, ma dovette poi riparare in Svizzera, mentre gli austriaci avanzarono in territorio pontificio, Modena, Parma, Ferrara ed occuparono – per un solo giorno prima di essere cacciati – Bologna.

La seconda campagna

Mentre il parlamento elesse spontaneamente re di Sicilia Ferdinando di Savoia, che dovette rifiutare a causa della non facile situazione del Piemonte, Venezia – unica città del Lombardo-Veneto a rimanere ancora nelle mani degli insorti – decise l’annessione al Regno di Sardegna e Giuseppe Mazzini, che il 9 febbraio 1849 fu posto a capo della neonata Repubblica Romana, fallì nel suo tentativo di occupare Como, l’Austria, di fatto, era tornata in possesso del territorio precedente alla prima campagna militare. Nel marzo 1849, tuttavia, a seguito di un profondo rinnovamento dell’esercito, la Camera approvò con 94 voti favorevoli e 24 contrari la ripresa della guerra, che Carlo Alberto – con otto giorni d’anticipo – notificò il 12 all’Austria. A causa di un errore di valutazione del generale Ramorino – che il 22 maggio seguente venne giudicato colpevole dalla corte marziale di Torino e fucilato per non aver eseguito gli ordini ricevuti – le truppe asburgiche, presso la Cava, in assoluta superiorità numerica, ebbero la meglio di quelle piemontesi. Si combatterono, il 21, la battaglia della Sforzesca, in cui il nemico venne respinto e contrattaccato, e due giorni più tardi quella di Novara, che segnò la definitiva sconfitta di Carlo Alberto. Il re abdicò in favore di Vittorio Emanuele II e fu proprio quest’ultimo a trattare l’armistizio di Vignale, poi ratificato dalla Pace di Milano del 6 agosto: l’Austria ottenne che, fino alla conclusione della pace, un loro corpo di 20mila uomini avrebbe stanziato in Lomellina, mentre Alessandria sarebbe stata occupata, pur rimanendovi una guarnigione piemontese.