L'Io e il Non-Io: introduzione al pensiero idealistico di Fichte
Secondo il filosofo tedesco si propone di dare coerenza e rigore al criticismo kantiano riconducendolo ad un principio fondamentale
La Dottrina della scienza e l’idealismo critico
Johann Gottlieb Fichte si propone, esattamente come Reinhold, di dare coerenza e rigore al criticismo kantiano riconducendolo ad un principio fondamentale: sarebbe, infatti, questa l’unica via necessaria al fine di costruire un sistema filosofico che contenga le basi di ogni sapere, vale a dire della scienza. È la cosiddetta Dottrina della scienza, intesa come l’indagine sulle condizioni che rendono possibile il sapere. Il principio della scienza, pertanto, va ricercato restando nell’ambito del criticismo, partendo quindi dalla coscienza trascendentale. Questo principio, tuttavia, non può essere la rappresentazione di Reinhold, in quanto questa si presenta come un fatto privo di spiegazione, mentre ogni fatto va sempre ricondotto a un motivo, cioè alla ragione del suo costituirsi e, quindi, all’atto che lo pone. Alla base c’è l’autointuizione dell’Io, che Fichte fa coincidere con l’io penso e l’intuizione della legge morale di Kant. Essa non può che essere un atto assolutamente incondizionato in quanto, se fosse condizionato, non potrebbe essere il principio primo. Di fatto, si tratta di un fondamento che si pone da sé, oltre che un atto, perché il suo essere altro non è che un porsi: è dunque, al contempo, sia un conoscersi che un agire. L’Io, conoscendosi, fa sì che pensante e pensato siano presenti come la medesima e realtà: in altre parole, soggetto ed oggetto coincidono completamente, senza avere una connotazione che li differenzi. È questa la base che porterà Fichte ad affermare che tutta la realtà finisce per risolversi nell’Io assoluto. Analogamente, le categorie dell’intelletto assumeranno un ruolo diverso: ciò che per Kant aveva lo scopo di unificare il molteplice, per Fichte avrà quello, opposto, di moltiplicare l’Io nella sua unicità. Saranno tre i principi fondamentali secondo cui questo reciproco rapportarsi di soggetto e oggetto viene regolato.
I tre principi sull’Io e il Non-Io
Se nella filosofia aristotelica il principio su cui si fondava la scienza era quello di non contraddizione («A ≠ non A», cioè A è diverso da non A), in quella moderna e in quella kantiana l’accento è posto sul principio di identità («A = A»). Secondo Fichte, entrambi sono giustificabili, perché deriverebbero da uno più generale – l’Io – e, in sua assenza, nessuno dei due avrebbe senso. È infatti l’Io a porre il legame logico A = A o, meglio, a porre lo stesso A. L’Io, invece, non è posto da nessun altro se non da se stesso e, in quanto condizionato solo da sé, si autopone affermando «Io = Io». Fichte, poi, ribalta la concezione secondo cui prima vengono gli oggetti e successivamente le funzioni compiute dagli stessi: ciò che viene comunemente chiamato “cosa”, cioè l’oggetto, è il mero risultato di un’attività. Se nella metafisica classica si diceva “operari sequitur esse” («l’azione consegue all’essere»), il filosofo tedesco parla di “esse sequitur operari” («l’essere consegue all’azione»). L’essenza dell’Io, quindi, consiste di un’attività autocosciente, in quanto si autopone e il suo pensare coincide con il creare, incarnando quella che Kant definiva intuizione intellettuale. Qui non si parla di un Io inteso come un singolo io empirico, bensì di un Io assoluto da cui deriva ogni cosa: è questo il primo principio della tesi fichtiana. A questo punto, partendo dal presupposto che non esiste un pensiero senza contenuto, una coscienza pensante si costituisce come tale solo in rapporto agli oggetti “pensati”. Fichte giunge così ad una seconda formulazione, che è in antitesi con la prima: «L’Io pone nell’Io il non-Io», partendo dal principio spinoziano “omnis determinatio est negatio” («ogni determinazione è una negazione»). Il non-Io, infatti, rappresenta tutto ciò che è opposto all’Io ed è diverso da questo e la sua necessità è data dal fatto che occorre qualcosa di esterno affinché si attivi la conoscenza. Va sottolineato, tuttavia, che tale realtà esterna non può neppure essere qualcosa di assolutamente indipendente dal soggetto (si ricadrebbe altrimenti nel dogmatismo kantiano della cosa in sé), in quanto non si può pensare ad un oggetto se non per un soggetto. Il secondo principio di Fichte, pertanto, serve a ricondurre il Non-io al suo autore, a rimuovere la sua estraneità di dato e a dare un senso alla conoscenza umana, la quale senza un riferimento logico all’oggetto diverrebbe vacua e inconsistente. Inoltre, l’attività di «colui che pone» implica che qualcosa sia «posto», e quindi lo scaturirsi di un Non-io, esattamente come L’Uno plotiniano generava altro da sé per autoctisi. Il Non-io è ora all’interno dell’Io originario poiché all’infuori dell’Io non può esistere nulla. Ma il non-io, a sua volta, limita l’Io posto nel primo principio il quale, non possedendo ancora tutto il contenuto della realtà oggettuale, genera l’esigenza di una conciliazione. Il momento della sintesi è rappresentato dal terzo principio, secondo cui l’Io assoluto è costretto a porre un “Io” empirico, finito, limitato, e quindi divisibile, da contrapporre al Non-Io, anch’esso divisibile: infatti, soltanto ciò che è infinito non può essere diviso («L’Io oppone, nell’Io, all’Io divisibile un Non-Io divisibile»). L’opposizione tra Io e Non-io, però, non avviene in modo netto ma, al contrario, in maniera dialettica, in modo tale che, pur limitandosi l’un l’altro, si determinino a vicenda. Se il secondo principio, di fatto, riconduceva il Non-Io all’interno dell’Io, in semplice contrapposizione, il terzo parla di una loro mediazione, con cui l’Io prende coscienza di non essere solo opposto al Non-Io, ma anche limitato da quest’ultimo, suddividendosi nella molteplicità. Questa reciproca limitazione consente di spiegare sia i meccanismi dell’attività conoscitiva sia di quella morale, superando il dualismo kantiano.