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"crisi" tra i ricercatori in Italia: l'indagine iStock

Università, ricercatori precari cresciuti di 8 volte in 10 anni

Un'indagine lancia l'allarme sui ricercatori in Italia, che sono sempre più precari, con contratti brevi, poche garanzie e salari più bassi d'Europa

Francesca Pasini

Francesca Pasini

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Content Writer laureata in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali, vivo tra l'Italia e la Spagna. Amo le diverse sfumature dell'informazione e quelle storie di vita che parlano di luoghi, viaggi unici, cultura e lifestyle, che trasformo in parole scritte per lavoro e per passione.

Negli ultimi 10 anni i ricercatori precari sono cresciuti di otto volte all’università. Ma non solo: sono anche i meno pagati d’Europa e le donne sono ancora una volta svantaggiate rispetto agli uomini. Lo afferma la nuova indagine Adi sui dottori di ricerca, che fotografa una situazione allarmante per il futuro dell’Italia, denunciando “le responsabilità istituzionali e politiche che hanno condotto l’università italiana verso un punto di crisi strutturale ed esistenziale senza precedenti”.

In Italia meno ricercatori e con contratti precari: i numeri dell’indagine

La dodicesima indagine Adi (Associazione dei Dottorandi e Dottori di ricerca) evidenzia dati preoccupanti per l’Italia. In generale, in 10 anni (dall’anno accademico 2013-2014 all’anno accademico 2023-2024) il numero di ricercatori e ricercatrici dottorati è diminuito del 21,9%. Piccoli segni di miglioramento iniziano a vedersi solo negli ultimi due anni studiati.

Ma la contrazione di ricercatori in Italia non è l’unico dato allarmante che pone un problema sulla ricerca, considerata un pilastro per lo sviluppo futuro di ogni Paese. Infatti, a questo si aggiunge il fatto che i contratti con i quali vengono impiegati i ricercatori sono precari, con una durata anche inferiore a un anno. Secondo i dati del Mur utilizzati dall’Adi nell’indagine, nel 2013 ricercatori a tempo determinato erano solo il 9% del totale, mentre nel 2023 hanno raggiunto il 77%: gli studiosi ricercatori precari sono quindi aumentati di 8 volte in 10 anni. Una situazione di precarietà già denunciata dagli stessi ricercatori negli ultimi mesi.

Inoltre, un terzo delle posizioni, oltre ad essere precaria, ha una durata totale di meno di un anno. L’Adi, infatti, denuncia “l’estrema precarietà diffusa sul sistema di reclutamento post-dottorale nel nostro Paese”: il 42,8% degli assegni di ricerca e il 50,5% delle borse di ricerca durano meno di un anno.

La precarietà porta anche all’esclusione dalle tutele sociali, come denuncia l’Adi: “Contratti brevi e instabili, salari insufficienti e l’esclusione sistematica da tutele sociali fondamentali quali pieni diritti genitoriali, contributi previdenziali e assistenziali, un sistema di welfare a supporto delle persone”.Università, l’idea di Bernini per attrarre ricercatori in Italia

Donne ricercatrici più svantaggiate rispetto agli uomini

All’interno del mondo dei ricercatori, ad essere ancora una volta più svantaggiate rispetto agli uomini sono le donne: tra le ricercatrici donne, il 73,7% è precario, con contratti a tempo determinato, contro il 32,8% degli uomini. In altre parole, negli atenei italiani 3 donne su 4 hanno un contratto a tempo determinato e risultano quindi precarie.

Il problema dei finanziamenti statali

Uno dei problemi alla base di questa contrazione di ricercatori nel Belpaese riguarda i finanziamenti dello Stato, che rappresentano solo un quinto del totale dei fondi stanziati per la ricerca. Infatti, emerge che solo il 20% dei ricercatori è pagato da fondi istituzionali stabili pubblici, non soggetti a cambiamenti nel breve periodo (si tratta del Fondo per il finanziamento ordinario delle università – Ffo).

Il restante 80% dei finanziamenti si divide tra fondi “emergenziali” (come il Pnrr), fondi privati, dell’Unione europea e fondi eccezionali (Pon e Prin). L’Adi mette quindi in guardia: “Queste sono erogazioni provvisorie, non destinate a essere rinnovate nel medio e nel lungo periodo”.

I fondi del Pnrr, ad esempio, secondo l’Adi “rappresentano un esempio lampante del fallimento politico che affligge il nostro sistema universitario e di ricerca”, con migliaia di collaborazioni di ricerca “attivate senza una chiara prospettiva di prosecuzione o stabilizzazione”.

Quanto guadagna un ricercatore in Italia (e all’estero)

Secondo quanto emerge dall’indagine, inoltre, i post-laureati italiani sono anche i meno pagati in Europa, con uno stipendio medio netto di 1.729 euro il mese.

E all’estero? Secondo uno studio dell’Università della California-Berkley riportato da La Repubblica, che ha analizzato i quattro Paesi che rappresentano “i mercati più ampi nel mondo accademico europeo”, un ricercatore in Italia all’inizio della carriera percepisce mediamente 28.256 euro netti, mentre nel Regno Unito ne guadagna 49.168 euro e in Germania arriva fino a 52.689 euro annui.

Cosa chiede l’Adi

L’Adi chiede di riconoscere “senza mezzi termini il dottorato di ricerca come attività lavorativa” attraverso una giusta contrattualizzazione ed eliminando “definitivamente tutte le forme parasubordinate e precarie che vengono mascherate da percorsi formativi”.

“Con forme di impiego non contrattuali e con salari ben al di sotto della media europea – conclude il commento dell’Adi all’indagine -, si danneggia la credibilità della carriera accademica in Italia, rendendo per contrasto tutti gli altri Paesi estremamente più attrattivi per chi vuole fare ricerca o insegnare all’università”. Un incentivo alla ricerca all’estero di lavoro controproducente per l’Italia, che deve fare sempre più spesso i conti con il fenomeno della fuga di cervelli, anche se la ministra Bernini ha già annunciato un piano per attrarre ricercatori in Italia.

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